Ovvero come e quando Roberto Latini approda e si insedia alla villa degli Scalognati protetto solo dalla forza della parola, attrezzata come una lancia e incastonata come pietra preziosa e poetica nella corazza drammaturgica. Così, il nostro, ingaggia una lotta serrata, una guerra quasi universale direi, con “I Giganti della Montagna” ultima incompiuta dello scrittore agrigentino, e con il suo testo poliforme che coglie nella trasfigurazione mitopoietica l’esito inevitabile di una meta-teatralità che si appoggia sulle apparenze, unica realtà possibile (nel teatro) e sincera di un esistere alla perenne ricerca di una identità possibile e condivisa. E Latini riesce appunto a farlo con la sola forza della parola scenica che, sorretta dal suo corpo recitante teso e mutevole quasi in perenne fuga, occupa e costruisce la scena sgombra da equivoci, mentre articola, trasportata dal suo stesso suono e
irrobustita dalla musica che l’accompagna, lo spazio delle immaginazioni custodite in quella strana villa e sottratte (chissà per quanto) alla volgarità di tempi votati al potere e al potere del denaro (quelli di Pirandello ma purtroppo, e forse di più, anche i nostri).
Ne nasce una nuova peripezia scenica, un nuovo emozionante e fascinatorio oggetto e soggetto di conoscenza, intimamente fedele ma nel contempo trasfigurato, che affonda nell’essenza della narrazione e ne distilla con passione i significati ed i significanti in essa nascosti, celati da quella sorta di pudore di sé stesso che guidava la penna di Pirandello ma che il dramaturg Latini riesce ad assumere sul suo corpo scenico, dallo sguardo imprigionato come in una tranche impercettibile, e dunque a svelare.
Ma soprattutto sembra sanarne la presunta incompiutezza, di cui nulla rimane in questa riscrittura in questo travestirsi della parola nell’attore. Forse se il terzo atto non è stato mai scritto è perché Pirandello non ha mai voluto effettivamente scriverlo, intuendo che il percorso aperto da quel testo andava e poteva completarsi solo a cura di altri, attori, registi o anche spettatori, ieri o domani.
Di grande efficacia dunque, in questo contesto, la scelta di trasformare il pubblico, facendosene circondare oltre il proscenio, nei Giganti mentre questi nel frastuono assordante scendono in paese ed una voce nella semioscurità riprende le parole che avevano aperto la drammaturgia: “Io ho paura! Io ho paura!”. Forse dunque la parola poetica nel transito drammaturgico può ancora salvarsi, oltre il pessimismo pirandelliano?
Non c’è nulla in scena, solo la voce, il suono e la musica, tutti a circondare la parola drammaturgica di cui Latini, modulando microfoni e voce libera con straordinaria sapienza, si assume la responsabilità recitante, accompagnandola con suggestioni della più grande tradizione del dramaturg in scena, tradizione di cui da Leo De Berardinis, Perla Peragallo ovvero Carmelo Bene è uno dei più attivi depositari.
Radici e suggestioni che affondano dunque nella tradizione dell’autore-attore, in cui, come ha scritto Renata Molinari, la “scrittura seconda” che costituisce l’essenza del lavoro del dramaturg organizza in maniera unitaria il processo creativo, artistico nelle sue diverse componenti e fasi.
Un lavoro, quello di Roberto Latini, non recentissimo ma che si riorganizza e rinnova ad ogni occasione scenica, assecondando luogo e tempo del suo transito.
Il luogo la terrazza del Castello di La Spezia. L’occasione la stagione del teatro FuoriLuogo. L’invito di Renato Bandoli, Andrea Cerri, Michela Lucenti Direttori artistici del teatro. La data il 29 aprile. Il pubblico coinvolto senza sforzo e commosso ha a lungo applaudito.