È uno spettacolo straordinario questa recente creazione di Pippo Delbono, straordinario in quel senso raro che spesso si incontra con lui ma più raramente altrove e con altri, cioè in quel significato per cui si “estrae” dalla normalità/ordinarietà della vita un distillato di senso e sapienza che la supera. Nasce così uno strano ma non estraneo miscuglio di religiosità profonda e universale e di blasfemia in cui si rispecchia il divino dentro di noi o anche fuori di noi (Pippo del Bono questo non ce lo dice) perché il diabolico in fondo, il male, non è che lo specchio in cui scorgiamo il divino anche nella sua “assenza”. Vengono in mente a proposito le parole di un altro grande mastro cercatore, quel Grotowski che sta dietro a molta della ricerca teatrale europea, quel Grotowski che tanti anni fa argomentava:” Nel mio lavoro di regista sono stato perciò tentato di servirmi di situazioni arcaiche
consacrate dalla tradizione, situazioni tabù (appartenenti alla sfera della religione e della tradizione). Ho sentito il bisogno di confrontarmi con questi valori. Essi mi affascinavano, riempiendomi di un senso di irrequietezza interiore mentre allo stesso tempo ero in preda alla tentazione di bestemmiare: volevo attaccarli, superarli o piuttosto metterli a confronto con la mia esperienza personale determinata essa stessa dall'esperienza collettiva del nostro tempo. Questa caratteristica delle nostre produzioni teatrali è stata variamente definita “collisione con le radici”, “dialettica di derisione e apoteosi”, o anche “religione espressa attraverso la bestemmia; amore che si esprime attraverso l'odio.”
Ma Pippo Delbono è anche altro, è una persona che “piega” le regole, non si piega cioè o si inginocchia alla regole ma le usa come lo strumento non di un artista ma, se vogliamo, di un artigiano che affonda le sue mani nella concretezza della e delle esistenze, sporcandosele quelle mani anche del sangue e del dolore se occorre.
“Vangelo”, per ogni uomo dell’occidente e non solo, è dunque il testo del discrimine, cioè del confine interiore che, come ogni limes, separa e congiunge il dolore e l’amore, la vita e la morte. Icasticamente Delbono elimina l’articolo “il” proprio per indicare che quel testo, tanto amato dalla madre così profondamente amata e anche qui all’orizzonte della sua più profonda intimità, non debba più essere irrigidito nelle sue regole ma si possa sciogliere in un sentimento universale che ne possa riaprire (aprire è il verbo che per Pippo Delbono lo definirebbe) tutta l’infinità capacità di accoglienza e di comprensione (di inclusività dunque prima singolare poi collettiva) dell’amore.
E lo fa, come sua cifra, ponendo ancora un volta in gioco sé stesso, con i suoi limiti e confini, gettando quasi sulle tavole del palcoscenico quel suo corpo talora sgraziato e disarmonico ma che, anche questo in quel senso è straordinario, proprio in quel momento si rivela paradossalmente sapiente, di una sapienza che elabora quasi digerendole le parole e poi le grida, facendole diventare musica che si mescola alla musica, e così ci sorprende, aggira ogni nostra difesa pronta a qualsiasi attacco ma non a questo, e ci raggiunge nel profondo.
Una sapienza teatrale che è anche un modo di esistere, di vivere e percorrere quel percorso breve che ci è dato e durante il quale ha incontrato e riconosciuto esseri stranamente veri e sinceri di cui si è fatto allievo e con cui si è accompagnato e che insieme hanno accompagnato le sue scoperte artistiche e drammaturgiche.
E che ancora oggi sono in scena con lui, a partire da Bobò, attore efficace come un grande professionista e simbolo di una esistenza che pareva “inesistente” e che invece nascondeva verità da scoprire.
Ma “Vangelo” è anche teatro, è anche sapienza drammaturgica capace di mescolare linguaggi diversi (dal cinema alla danza) unendoli in una suggestione rituale che Delbono usa e guida come una sonda per mostrarci, in una perenne miscela di vita e arte, le profondità vitali dello spirito in quelle innumerevoli sue mutazioni quali possiamo incontrare nella “normalità” appunto, nella ordinarietà delle esistenze e della Storia.
Nasce come opera lirica, “Vangelo”, e diventa drammaturgia e poi film, mantenendo intatta la sua unità, e nasce dalla collaborazione con il Teatro Nazionale di Zagabria giungendo a maturare proprio quando, coincidenze “ironiche” della storia, un flusso di innumerevoli migranti si avvia lungo i Balcani. Allora anche con questo si contamina la creazione artistica, anche in questo si incista, modificando le occasioni e le suggestioni ma mantenendo i ritmi.
Così il testo dei Vangeli si liquefa in suono e musica e può impastarsi con la poesia di Pasolini oppure con la canzone pop e la musica leggera, con il musical e con il rock, tessuti insieme come ricami che emergono dalla robusta trama sonora di Enzo Avitabile la cui orbita artistica ha intercettato di recente quella della Compagnia.
La drammaturgia che, con grande successo sta attraversando l’Europa, è una produzione di Emilia Romagna Teatro in collaborazione, come detto, con il Teatro Nazionale di Zagabria. Facendo forse torto ad un opera che sembra costruita tutta assieme da tante mani, diciamo infine che la regia è ovviamente dello stesso Pippo Delbono, come anche i filmati, le musiche originali di Enzo Avitabile, le scene di Claude Santerre, i costumi (affascinanti) di Antonella Cannarozzi e il disegno luci di Fabio Sajiz.
La Compagnia Pippo Delbono si contamina qui con collaborazioni di altre provenienze e impegna la scena con Iolanda Albertin, Gianluca Ballarè, Bobò, Margherita Clemente, Zrinka Cvitesic, Pippo Delbono, Ilaria distante, Simone Goggiano, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Pepe Robledo, Grazia Spinella, Safi Zakria e Mirta Zecevic.
Lo spettacolo chiude la stagione ufficiale dello Stabile genovese ed è in cartellone al teatro della Corte dal 3 al 7 maggio. Grande la sintonia e l’entusiasmo del pubblico alla prima.