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Nel dicembre 2015 abbiamo assistito, per la prima volta, al secondo episodio della trilogia, intitolato MATRICI UN RITO. Gli angoli remoti di una Napoli conosciuta a pochi, e inevitabilmente sotterranea, diventano palcoscenico indispensabile per gli spettacoli-rito, ideati ed interpretati da Alessandra Asuni. La trilogia prevede un percorso che coinvolge necessariamente gli spettatori, ogni volta previsti in numero ridotto affinché il rito si compia nel migliore dei modi. Un prodotto artistico, quindi, che mescola gestualità e lingue ancestrali e che connota specificatamente il lavoro della Asuni. Ecco perché, dopo la prima visione, sappiamo, o intuiamo, a cosa andiamo incontro, ogni volta che assistiamo ad una performance della bella ed intensa artista sarda, ma ormai partenopea. Le radici affondano nella terra isolana di Sardegna ma, in realtà, al di là della lingua e dei riti, il

racconto gestuale e sonoro descrive mondi perduti, ma mai morti, che caratterizzano non solo le culture meridionali italiane, ma anche quelle antiche e vive che sopravvivono in tutto il mondo. La ricerca di luoghi sotterranei ci conduce, stavolta, nel buio dell’ipogeo-cripta dell’ex Asilo Filangieri di Napoli: a due passi dalla zona dei presepi, conosciuta come San Gregorio Armeno, e vicino all’ingresso del percorso archeologico di Napoli Sotterranea. La cripta dell’ex Asilo era evidentemente un luogo destinato alla sepoltura, dalle pareti scavate e caratterizzate da mensole-appoggi per corpi e cadaveri, ancora in parte visibili e rivestite da mura più recenti che ci descrivono una rinascita. E proprio di rinascita parliamo, o meglio di nascita, perché nonostante si parta dalla morte, nel caso di questo suggestivo ACCABAI, sappiamo già che MATRICI ci conduce verso la vita, attraverso il gesto epifanico dell’impastare il pane, del farlo lievitare e del mangiarlo.
ACCABAI parla di morte, non solo grazie ad una vera e propria immersione nel luogo prescelto, ma  soprattutto attraverso il rito a cui ci accingiamo, guidati dalla voce e dalla gestualità della Asuni. La morte diventa la protagonista, si siede con noi e si ciba dello stesso companatico: formaggio di pecora, pane carasau, salame, vino. Il corpo e il sangue di Cristo, attraverso un pane/ostia, si trasformano in momento di condivisione, durante il quale i commensali “pescano” il cibo da una cesta posta in terra e bevono alla morte. Ancora oggi l’usanza di pranzare uniti nel dolore, durante la veglia di un morto, preclude un gesto scaramantico che spinge la morte verso la rinascita, attraverso il cibo. Non a caso la donna “accabadora” in Sardegna era chiamata dalle famiglie per dare la morte ai malati terminali: vestita di nero e con il viso coperto, ricordava l’immagine apocalittica e medievale dello scheletro con la falce e il cappuccio nero. Ogni spettatore incarna un morto: nella tasca del pantalone, che ognuno di noi riceve in dono, è nascosto un foglietto con il nome del defunto. Accogliamo questi morti sulle nostre gambe, ripiegando i pantaloni sulle ginocchia, bevendo e brindando alla loro vita ultraterrena, pronunciando il loro nome, osservando dei fogli tessuti da fili – come quelli delle Parche -, dentro le viscere di una città che rappresenta essa stessa vita e morte, cibandoci della Terra Madre e aspirando alla rinascita. Luogo polveroso, isolato dai rumori della città, illuminato da candele e circondato da oggetti antichi, dai teschi di animali, alle corna e campanacci, ricorda le descrizioni di “banchetti” ancestrali, descritti dalla penna di Grazia Deledda nel suo romanzo “Canne al vento”. Ogni filo, accarezzato dall’attrice, è più o meno contorto, arrotolato, cucito a tratti larghi o stretti, attraverso le maglie ingiallite della carta, pregna dell’anima defunta. La vita tessuta attraverso le nostre azioni è impressa nei nomi e nei ricordi.
Interamente condotto in lingua sarda, il rito è compreso da tutti i commensali grazie ad un codice, che è quello antico della gestualità, che permette a tutti i presenti – alcuni anche stranieri – di seguire le tappe, le procedure, per raggiungere la purificazione. Quest’ultima è necessaria, per tutti i presenti: il pubblico è invitato a bagnare l’attrice con getti di acqua. Sotto una nicchia della caverna/cripta, dentro una tinozza/fonte battesimale, il rito raggiunge il culmine e l’attrice ci invita a emergere a nuova vita. Una corsa su per le scale, per le vie della Napoli storica, verso il portone di una chiesa. Colti di sorpresa ci lanciamo in una corsa tra i neri vicoli napoletani  per ottenere una frase sussurrata all’orecchio. Siamo rinati dalle viscere di un utero sacro-profano. Ogni anima, che abbiamo accompagnato in questo rito, è purificata insieme a noi e si è liberata dal corpo.
Ma non basta. La trilogia attende la nascita di un terzo rito. Per pochi eletti e curiosi sarà mostrato per la prima volta ad agosto, durante il Festival Troia Teatro, insieme alle prime due tappe, attraverso una lunga, triplice e necessaria  ascesa verso la rinascita.

Napoli- Ex Asilo Filangieri
7 maggio 2017
Accabbai - un rito
di e con Alessandra Asuni
collaborazione di
Marina Rippa, Massimo Staich
una produzione f.pl femminile plurale.