Interiorità che si sovrappongono e si liquefano e che cercano di sopravvivere sopraffacendosi l’una con l’altra in un mondo in cui tutto è diventato esteriorità e apparenza, in cui ideali, passioni e anche i più intimi sentimenti sono diventati “componenti di arredo”, pezzi di plastica per lindi ed asettici appartamenti, luoghi che si credono in salvo nel momento stesso in cui naufragano nella società e nella storia. Un pezzo di plastica, dunque, per quella perenne e assurda installazione virtuale, per quelle performance del grottesco che sembrano diventate le nostre vite che disperdono nel nulla di anonime collettività (Berlino, Roma, New York che importa?). Padre medico, madre con voglia di nuove realizzazioni, e figlio adolescente in crisi e in mutazione, questi i protagonisti canonici di un interno dei nostri quartieri borghesi. Poi, incistato quasi tra di loro a tradirne la reciproca disperazione,
l’artista post-moderno cui la madre si presta come “assistente”. Tutto canonico e tutto in attesa di una miccia per deflagrare e dissolversi in un eterno presente.
Marius von Mayenburg, l’autore della piéce, usa come di consueto una scrittura dura come il cemento, e come il cemento pesante, una scrittura e una sintassi che spinge e avvolge i personaggi in un doppio movimento, verso l’interiorità e poi, quasi ad espellerne gli umori sulla scena, direttamente verso il pubblico.
Un movimento rotatorio dove tutto si ripresenta, ormai imprigionato in sé stesso. La miccia dunque, il deus ex machina è la nuova giovane governante, sorta di addensatore chimico su cui decadono le rabbie e le frustrazioni di tutti fino all’esito finale, forse solo immaginato, mentre la scena riprende da capo il suo discorso, la sua musica come fosse un disco fallato.
Mayenburg si ripropone con questa sua drammaturgia come uno dei migliori talenti della seconda generazione, capace di rielaborare e intrecciare nella contemporaneità la rabbiosa delusione e l’angoscia di tanto teatro tedesco.
Il testo, nella versione italiana di Umberto Gandini, è ben diretto da Simone Toni, una regia che per così dire nulla nasconde. Gabriele Furnari Falanga, Federica Granata, Marisa Grimaldo, Roberto Serpi e Federico Vanni sono interpreti convincenti.
Terzo appuntamento della “Rassegna di drammaturgia contemporanea” dello Stabile di Genova, alla “piccola corte” dal 7 al 17 giugno. Una bella drammaturgia, molto apprezzata con numerosi richiami in scena.