Il nostro è un mondo proprio strano, tirato verso due atteggiamenti mentali opposti. Se da un lato si mostra capace di grandi atti di violenza e infamia, d’altro lato la comunicazione multimediale e le nostre relazioni sociali sono costruite sul politicamente corretto, il buono-bello-felice che deve pervadere la narrazione di ogni evento. Dalla Svizzera italiana il Teatro d’emergenza costruisce uno spettacolo su questa riflessione (Teatro Libero di via Savona 10, fino al 17 giugno). A partire da “Una modesta proposta” di J. Swift, Luca Spadaro (che ne è anche il regista) elabora “Cattiverie”, uno spettacolo in tre parti scollegate tra loro eppure unite dal filo rosso della cattiveria. Che non è il male, è una sua variante, una sua declinazione. Ma andiamo con ordine. C’è l’attore comico sul palco di un ipotetico teatro con applausi finti che, battuta dopo battuta, guida il pubblico a ridere di
ciò di cui nessuno ammetterebbe mai di aver riso. La morte, il cannibalismo, la violenza, il cinismo. Col sorriso sulle labbra, la presenza scenica rassicurante, la risata registrata come negli show americani, ci si sente liberi di scoprire i denti con ilarità, anziché digrignarli in una morsa di rabbia offesa. Si può ridere di tutto? Forse no, sicuramente è possibile farlo di ciò che è velato dal politicamente corretto e che può, per una volta, essere sollevato per guardare cosa vi sia sotto. Rassicuràti dal fatto che quel velo, una volta riaccese le luci in sala, scenderà nuovamente ripristinando il giusto e il bene, la risata ci sgorga amara ma libera.
Il secondo quadro è una surreale assemblea del club dell’omicidio. Un giovane rampante incravattato e benparlante usa modi suadenti da venditore di quadri in tv per convincere l’uditorio della bellezza dell’omicidio. Chi di noi non si mai lasciato appassionare dalle minuterie dei più truculenti fatti di cronaca, chi non ha contemplato per ore le scene del crimine descritte dai maestri del giallo? Siamo tutti colpevoli di questa ricerca immorale di un bello che non osa pronunciare il suo nome?
Chiude lo spettacolo una scena di autodistruzione che rimanda alle pagine dolorose di guerre e devastazioni dei nostri anni. Una lettera in una bottiglia, un fiammifero, un suicidio, la morte che non lascia scampo. Qui non c’è da ridere, c’è solo da pensare e ripensare al fatto che mentre noi ridiamo, c’è anche quel drammatico rovescio della medaglia.
Sullo sfondo una cantante improbabile vestita come Jessicah Rabbit intona note arie per una colonna sonora tra il grottesco e il surreale.
La Cattiveria, dunque, è una declinazione del male? Nessuno pare essere contrario a questo, ma interessante è cogliere come l’ingrediente base, la cattiveria, appunto, sia stato “tagliato”: umorismo, sadismo, grottesco, passaggi dark, ilarità scanzonata a contrasto con i contenuti. Ne nasce una sostanza psicotropa, una sorta di droga moderna che paradossalmente non ci astrae dalla realtà ma ci fa vedere le cose come stanno. Da che mondo e mondo il riso è stata la porta maestra per raggiungere certe verità indicibili. “Cattiverie” si avventura a ritrarre l’uomo moderno proprio come intriso di un ironico male, celato sotto il buon costume e il politicamente corretto. Molto interessante!