Si conclude con questo lavoro, il terzo di area tedesca su cinque rappresentati, l’annuale Rassegna di Drammaturgia Contemporanea organizzata dallo Stabile di Genova, tra Duse e Piccola Corte, una rassegna/festival d’estate che quest’anno è stata assai interessante, ancor più, se vogliamo, delle pur sempre encomiabili rassegne precedenti. Anche questa drammaturgia infatti spinge il suo sguardo, acuto in quanto profondo ed insieme aspro fino alla cattiveria, nel cuore della modernità europea cercando risposte a quegli enigmi e a quel dolore che, sotto la patina di un apparente sviluppo e di una altrettanto apparentemente quieta quotidianità, ci attraggono e così risucchiano costantemente la nostra identità sempre più fragile, a partire dai suoi ultimi frutti, quelli di una adolescenza perenne e insieme paradossalmente perduta. Ispirato ad un film francese non distribuito in Italia (La
journée de la Jupe) lo spettacolo riscrive e rielabora sul palcoscenico il precipizio che talora si apre davanti a ragazzi persi nei sobborghi delle città e nella mente stessa delle loro comunità, precipizio nel cui precipitare grottesco e perverso sembrano cercare emozioni e sentimenti altrove sempre negati.
In una classe qualunque di una Germania di oggi, che è specchio dell’Europa intera, una insegnante tormentata e esasperata sequestra una pistola a uno studente e costringe lui e gli altri a mettere in scena, qui e ora, I Masnadieri di Schiller oggetto della lezione di quel giorno.
I due drammaturg autori della pièce, isolando quasi il contesto rispetto a ciò che sta all’esterno, riescono così a creare una doppia prospettiva di senso attraverso la quale le parole di quei romantici del passato vengono smascherate nella loro intima ed eversiva violenza e, liberate dalla polvere di ogni museo, offrono finalmente a quel gruppo di ragazzi la possibilità di articolare il loro dolore e la loro intima confusione. Offrono loro cioè l’opportunità insperata di esprimere e conoscere le pulsioni che li tormentano e quella affettività di cui sono disperatamente ma anche inconsapevolmente assetati.
Abilmente le due sintassi vengono dunque sovrapposte in una sorta di metateatro che, come nelle tragedie antiche e moderne, sovverte ogni equilibrio fino al sanguinoso Autodafé finale ma nel contempo riallaccia i fili perduti di una continuità di senso e dunque i margini di una riflessione su emarginazione e convivenza.
Una drammaturgia amara che nulla risparmia e che non sembra offrire soluzioni facili, ma che intuisce nella continuità delle generazioni un filo da riannodare, una speranza oltre la disperazione. Scritta a quattro mani da Nurkan Erpulat, drammaturgo turco trapiantato in Germania, e da Jens Hillje cofondatore della “Baracke am Deutschen Theater”.
Nella versione italiana di Clelia Notarbartolo si avvale della regia di una giovanissima Elena Gigliotti, che sostiene il pathos della narrazione con una messa in scena dalle molti sintassi sceniche. Bravi i protagonisti che sembrano entrare con forza soprattutto nelle atmosfere schilleriane che improvvisamente e paradossalmente avvolgono quell’aula spoglia. Sono Giuseppe Brunetti, Roberta Catanese, Fabrizio Costella, Riccardo Marinari, Silvia Napoletano, Cristina Pasino, Francesco Patané e Alessandro Pizzuto.
Alla Piccola Corte dal 21 giugno al primo luglio. Meritati i lunghi applausi.
Una ultima notazione sulla rassegna, suggerita e rafforzata anche da questo ultimo spettacolo. In Germania e in Gran Bretagna molti grandi teatri impegnano con continuità una parte della loro attività e della loro struttura a servizio della nuova drammaturgia, selezionando e promuovendo una nuova generazione di drammaturghi le cui qualità abbiamo potuto in parte apprezzare durante questa rassegna.
Sarebbe a mio avviso interessante se anche lo Stabile di Genova potesse dare continuità a questa ricerca e promozione, di cui la Rassegna è esito coerente, magari anche durante la stagione, ricavando uno spazio duraturo dedicato alla nuova drammaturgia anche italiana.
Foto Pitto