Teatro e sua comunità, una comunità nell’era globalizzata dai confini sempre più incerti, ovvero teatro e democrazia, intesa questa come scelta condivisa ma soprattutto consapevole. Il Teatro di Roma non si sottrae all’equivoco quesito, cui molti voltano le spalle con fastidio, con questo suo spettacolo collettivo che ha come tema e sottotitolo “l’Italia al lavoro”. Forse perché il teatro nel suo essere e nel suo insieme contemporaneo può ancora tentare di compattare e strutturare una comunità sempre più frastagliata e di ridarle quella consapevolezza di sé che sembra irrimediabilmente naufragata in “rete”. Quale miglior pietra di paragone, dunque, se non il ‘lavoro’ (ricordate l’Art. 1 della nostra
Costituzione?), il lavoro che cambia, il lavoro perennemente nascosto, il lavoro che non c’è e quando c’è è precario, il lavoro cioè che incespica su sé stesso diventando altro.
È andato in scena al teatro Argentina, dall’11 al 16 settembre, la prima parte di questo interessante progetto che coinvolgerà alla fine 20 autori, espressione ciascuno di quella diversificazione regionale che in qualche modo ancora incide sulla percezione di noi, di cui 9 si sono alternati sabato 16 in una maratona di 5 ore, nessun minuto sprecato.
A partire dal prologo di Elfriede Jelinek, appositamente scritto per l’evento, tradotto da Roberta Cortese e recitato con passione da Maddalena Crippa, esordio deflagrante ed illuminante in cui il lavoro dell’intellettuale spesso, se sincero, è causa di esclusione e di auto-esclusione come nel suo eclatante caso artistico ed esistenziale.
È stato uno spettacolo, questo, che come un mosaico di buona fattura ha consentito una percezione unitaria cui, tra l’altro, il lavoro del dramaturg, Roberto Scarpetti, ha contribuito a dare un impatto significante e coerente in cui può essere rintracciato un plus-valore unificante.
Alcuni elementi di questo bel mosaico sono comunque, a mio avviso, emersi con particolare vivezza cromatica e drammaturgica in quanto in grado di superare i confini del semplice teatro di narrazione per accedere ad una organizzazione scenica più articolata e complessa, dotata così di una maggiore profondità prospettica.
A partire da PANE ALL’ACQUASALE del pugliese Alessandro Leogrande, con Michele Placido, Antonio Bannò e Vincenzo D’Amato, tre quadri di grande efficacia che nella contemporaneità dei piani ripropongono un affresco in cui emerge il prepotente ritorno dello sfruttamento selvaggio del lavoro (caporalato e fabbriche che uccidono) che le lotte di inizio 900 sembravano destinate a sconfiggere.
E poi il commovente e amaramente ironico FESTA NAZIONALE DI Michela Murgia, con Arianna Sommegna, che propone il ribaltamento (quasi da sindrome di Stoccolma) della coscienza di lavoratrici del poligono NATO della Maddalena che per salvarlo, e salvare il proprio pane, arrivano a negare l’essenza mortifera del loro lavoro e a combattere chi quel lavoro vorrebbe riscattare.
Tema quest’ultimo riproposto da PETROLIO del lucano Ulderico Pesce, da lui stesso interpretato, sul ricatto e sul conflitto interiore che spesso agita la coscienza di chi lavora, mentre uno squarcio intenso sulle lotte sindacali è aperto da MECCANICOSMO del collettivo Wu Ming 2 e di Ivan Brentani, con Paolo Mazzarelli, Lino Musella, Filippo Nigro e Alessandro Minati.
Uno sguardo affranto e convincente sulla realtà dei migranti e del loro impatto sul lavoro, è offerto poi da SCENE DALLA FRONTIERA di e con Davide Enia, anche attraverso la paradossale creazione di nuovi lavori, cercando disperatamente di distinguere tra vivi e cadaveri e che apre una prospettiva sull’ umanità comune (intesa come sentimento) che ancora può rattoppare una umanità (intesa come insieme di esseri umani) spezzata e diseguale, mostrando come in essenza non c’è alcuna differenza tra i nostri e gli sguardi che sul mediterraneo cercano di affacciarsi. Un padre che riabbraccia il proprio figlio e ringrazia in lacrime il salvatore di entrambi ha una pelle senza colore alcuno.
Notazioni profonde e anche suggerimenti, se così si può dire, sui mutamenti in corso nella struttura sociale, purtroppo troppo spesso negativi, ci sono invece venuti da ETNORAMA 34074 di Marta Cuscunà, con Francesca Mazza, Antonio Bannò, Antonietta Bello, Vincenzo D’Amato, Fonte Fantasia, Cosimo Fracella, Alessandro Minati, Paolo Minnielli, Martina Querini e Stefano Scialanga, da REDENZIONE di Renato Gabrielli, con gli stessi interpreti, dal grottesco NORTH BY NORTH-EAST di Vitaliano Trevisan, molto ben recitato dallo stesso autore e da Giuseppe Battiston e Roberto Citran, e infine da SALUTI DA BRESCELLO di Marco Martinelli, con Gigi Dall’Aglio e Gianni Parmiani, dall’ironica Ideazione scenica che vede le statue degli ormai defunti Peppone e Don Camillo commentare degenerazione, infiltrazioni e caduta di valori in una Società, quella emiliana, che si è creduta fino a poco tempo fa immune.
Uno spettacolo prezioso per la sua capacità di far pensare e di mostrare con chiarezza la metamorfosi del lavoro, il suo incattivirsi, il suo costringerci talora a scegliere tra il morir di fame o il morire di lavoro e malattia, il suo allontanarsi e nascondersi ed essere senza volto, tanto che non sappiamo più contro chi lottare, rimasti come siamo senza più canti o bandiere. Questo il plusvalore che si deposita in noi durante e dopo lo spettacolo.
Una serata assai interessante, dunque, e ricca che è nata dal progetto di Antonio Calbi e Fabrizio Arcuri. La regia dello spettacolo è stata di Fabrizio Arcuri che si è avvalso del già citato dramaturg Roberto Scarpetti. Musiche dal vivo di Mokadelic, set virtuale di Luca Brinchi e Daniele Spanò, scene di Andrea Simonetti e luci di Giovanni Santolamazza.
Un successo anche di pubblico che ritengo si ripeterà con la seconda parte a fine stagione.