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Abbiamo scelto di parlare oggi, a più di un mese dalla sua morte, di Margot Galante Garrone non solo perché con l’autunno la rivista ritrova gran parte dei suoi lettori ma anche, e forse soprattutto, perché l’omaggio ad una vita intensa e ricca di arte come la sua non fosse solo frutto di una, triste, occasionalità. Un po’ di distanza è sempre utile, infatti, per mettere meglio a fuoco un percorso esistenziale che ha, incastonato nella passione per la musica colta e popolare, il gioiello di una esperienza teatrale (“Il Gran Teatrino. La fede delle femmine”) forse poco nota e certamente sottovalutata. Nata in una famiglia di intellettuali tra le più note d’Italia, si avvia alla musica e con Michele Straniero, Fausto Amodei e

Sergio Liberovici (che sposerà) riscopre, con il gruppo “Cantacronache”, il senso colto della ballata popolare. Prosegue come cantautrice che collabora con grandi poeti, da Franco Fortini a Italo Calvino, per approdare poi, appunto, a Venezia e al teatro.
Fondato nel 1987, generato quasi dalla stessa musica a lungo coltivata, questa compagnia di marionette interamente al femminile (il nome nasce da una citazione mozartiana del Così fan tutte) è stata a lungo ospitata dalla Fondazione Cini di Venezia e ha prodotto una serie di spettacoli che circumnavigavano, tramite la metaforizzazione del suono, soprattutto la condizione femminile.
Credo che la passione del figlio Andrea Liberovici, nato musicista sperimentale come il padre Sergio, possa essere almeno in parte vista come tributaria, pur nella sua diversità, di questo transito materno, se non altro dal punto di vista affettivo.
Un abbraccio all’amico Andrea e un addio a Margot dunque, con affetto e rimpianto, a Margot che dalla scoperta del canzoniere popolare e dall’amore incombusto per la rivolta ha rintracciato nel teatro i temi e le occasioni per una più intima rivisitazione del femminile.