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La storia di questo spettacolo, e naturalmente di questo testo, approda a Napoli. Dall’America, passando per l’Italia, arriva in mano allo scrittore di successo Maurizio De Giovanni. Anni fa passava, invece, attraverso le mani di Luca Barbareschi, il quale, negli anni Ottanta, non solo decise di mettere in scena numerose opere di David Mamet – autore, regista cinematografico statunitense, premio Pulitzer, nonché autore di questo AMERICAN BUFFALO - ma tradusse e pubblicò alcuni di questi testi in italiano. Le fasi di rimaneggiamento e adattamento a cui è stato sottoposto il testo di Mamet, considerando sia quelle drammaturgiche che sceniche, approdano ad un’ambientazione italo-americana, o meglio napo-americana, attraverso scelte specifiche operate da Maurizio De Giovanni. Posticipando in un secondo momento l’analisi dei personaggi e dei loro interpreti, cerchiamo di rispondere ad alcuni interrogativi che emergono dalla visione di questo spettacolo, in scena al Teatro

Bellini di Napoli, dal 14 al 19 novembre. La trama racconta di una moneta di poco valore, che riporta l’effige di un “american buffalo”, cara a Don, protagonista più anziano e proprietario di un emporio-rigattiere. Insieme a lui altri due personaggi che lo aiuteranno a rubare, o almeno questo sarebbe il progetto, dalla casa di un acquirente, il fantomatico nichelino, dal grande valore affettivo per Don, dal grande valore economico per gli altri. La morale della storia sembra voler attorcigliare i rapporti tra i tre, costringendo gli spettatori a cambiare continuamente opinione su ognuno di loro, proprio perché nessuno di questi tre uomini si fida dell’altro. Questa situazione condurrebbe ad una costante suspense che, in effetti, è presente durante alcuni momenti dello spettacolo, ma che in realtà è smorzata continuamente da alcune scelte testuali e recitative. L’ambientazione ed il linguaggio partenopei, voluti da De Giovanni, riportano l’attenzione sulla scelta di una forte caratterizzazione macchiettistica dei personaggi, i quali si dilungano, in alcuni momenti, in scene che scatenano le risate e l’applauso del pubblico. La suspense, dunque, viene smorzata del tutto, alternando momenti di recupero del testo originario a momenti in cui questo è caratterizzato da meccanismi linguistici, drammaturgici e scenici tipicamente dialettali. Ci si chiede, dunque, il motivo di un’ambientazione e di una lingua ibride: se l’adattamento prevede di collocare i personaggi e di narrare la storia in una Napoli contemporanea, perché gli esterni, che si intravedono attraverso un vetro offuscato dalla pioggia e dal vapore, sembrano proprio quelli di una strada secondaria collocata in un quartiere malfamato di una grande città americana? Perché l’interno dell’emporio – non possiamo esimerci, a questo punto, dal sottolineare la grandiosità della scenografia di questo spettacolo, curata da Carmine Guarino  e abbellita dalle luci di Marco Ghidelli – ricorda le ambientazioni di film americani, a metà tra i rigattieri, le bische clandestine e gli interni da saloon da film western? Troviamo ben poco della famosa “puteca” di ambientazione napoletana. Perché gli interpreti parlano un italiano ibrido, mescolato al napoletano, con inserti di frasi in lingua americana, trasformando il linguaggio di Don in uno slang da emigrato napoletano in America? Perché Tonino Taiuti, nei panni di Don, riporta il diminutivo del nome americano originale, e gli altri due interpreti, ossia Vincenzo Nemolato e Marco D’Amore, sono chiamati rispettivamente “Guaglione” e “ ’O Professore”, traducendo in napoletano il nome caratterizzante che era stato scelto da Mamet? Insomma, ritroviamo continuamente un passaggio ibrido dal napoletano, all’italiano, all’americano, che sembra rispettare la fonte, ma adatta solo in superficie alcuni elementi; non possiamo, quindi, parlare di un vero e proprio adattamento, così come non è possibile considerare l’ambientazione come tipica napoletana degli anni ’70, o addirittura contemporanea. Del resto anche l’abbigliamento dei tre personaggi viaggia dallo stile anni ’70 di Don, il più anziano, a quello anni ’80 del guaglione, il più giovane, e sembra accennare agli anni ’90 nel vestiario del Professore. La trama, inoltre, appare ripetitiva, e nonostante voglia sostenere una costante suspense, sembra ritorcersi su se stessa per poi esplodere velocemente alla fine, momento in cui si esibiscono pistole, minacce e relativo spargimento di sangue. Come promesso, ritorniamo sugli interpreti: inevitabilmente bravi. Non avevamo dubbi sulla grande esperienza e sulla presenza scenica di Tonino Taiuti che il pubblico apprezza e applaude a lungo; Vincenzo Nemolato è facilmente identificabile dallo spettatore attento, che ha seguito il suo percorso legato a Punta Corsara, o la sua più recente partecipazione al progetto del GLOBE(A)L THEATRE presso il Teatro Bellini, ma che è anche riconoscibile dallo spettatore inesperto grazie alla sua personale e originale caratterizzazione. Emerge fortemente la figura di Marco D’Amore che riesce, lungo tutto lo spettacolo, a mantenere tic e balbuzie con grande naturalezza. I tre pilastri di questo spettacolo, però, non sembrano amalgamarsi, ed ognuno di loro diventa esempio di bravura, seppur con caratteristiche molto diverse, ma senza instaurare un rapporto osmotico con gli altri attori. Il pubblico – numeroso - è eterogeneo, sebbene sia composto soprattutto da giovani, in parte “seguaci” del giovane e bravo Nemolato, ed in maggior parte fan di uno dei protagonisti della serie “Gomorra”, ossia il citato D’Amore, tanto da azzardare applausi a scena aperta ad ogni uscita dell’attore o a chiusura di scena. Il pubblico appare diviso e l’entusiasmo sembra provenire soprattutto da spettatori “adulti” i cui applausi sono rivolti sicuramente agli interpreti. All’uscita, però, un gruppo di giovani commenta: << bello, sì…ma non so>>.
Foto di Bepi Caroli

AMERICAN BUFFALO
Teatro Bellini Napoli
14-19 novembre 2017
di David Mamet
adattamento Maurizio de Giovanni
con
Marco D’Amore
Tonino Taiuti
Vincenzo Nemolato
scene Carmine Guarino
costumi Laurianne Scimemi
luci Marco Ghidelli
sound designer Raffaele Bassetti
regia Marco D’Amore
produzione Teatro Eliseo

Foto di Bepi Caroli