La drammaturgia di Danio Manfredini è una sorta di sguardo continuo sulla realtà dell’esistenza interiore ed esteriore, sguardo che si sviluppa come una sorta di piano sequenza di cui le singole messe in scena sono tappe, gorghi o ingorghi di pensiero e di immaginazione che emergono e si soffermano davanti a noi per il tempo che a entrambi appartiene. Così anche questo spettacolo, in scena al Dialma Ruggero di La Spezia per la stagione di Fuori Luogo il 15 e 16 dicembre, appare come un lacerto di una lunga narrazione che si illumina d’improvviso, come il pensiero che ci coglie tra sonno e veglia, un pezzo di racconto che fuoriesce dal buio della memoria e scompare di nuovo nel buio di un futuro incerto, chissà, per ricomparire altrove. Non è solo un viaggio nella mente, “Luciano”, infatti, più che una persona è un luogo in cui improvvisamente capitiamo trascinati sul filo di una consapevolezza, che ci prende nostro malgrado, e che attraversiamo. Tranne la nostra guida che ha il volto
scoperto e occhi innocenti ed ingenui, che ricordano l’osceno sentimentale e melodrammatico di Fassbinder, è un mondo di maschere quello che ci viene mostrato attraverso questo sogno, maschere che la società impone ai deboli per regolarne l’esistenza ed insieme nasconderli alla nostra vista, maschere che la società impone a tutti per imporre le regole della sua e nostra disperazione.
Manfredini/Luciano è qui, dunque, il solo personaggio, in senso pirandelliano, autonomo padrone della scena che detta alla forte scrittura del drammaturgo le sue leggi, guidandola verso un ribaltamento lirico condotto tra alienanti citazioni poetiche, da Leopardi a Pascoli a D’Annunzio, che riscattano la tragedia dell’esserci.
Quello che (non) succede sul palcoscenico è, dunque, una sequenza di lampi su storie dimenticate, occasione forse per ricostruire una identità che l’arte scenica di Manfredini dispiega figurativamente in drammaturgia.
Storie di abbandono e di perversione, storie di follia e di marginalità, colte nella loro capacità di suscitare, nonostante tutto, l’immagine o l’immaginazione dell’autentico, del sincero, del ‘puro’ addirittura, come i ragazzi di vita del compianto Pier Paolo Pasolini.
E di Pasolini, questo spettacolo, ci sembra condividere la tragica religiosità, l’immagine perduta di un intimo riscatto, l’immagine psicoticamente degradata di una Madonna che però ancora conserva la luce di un orizzonte possibile.
Una drammaturgia dura e difficile, come nelle corde di Manfredini, capace però di contenere l’angoscia che provoca e di condurla per mano fino a ribaltarsi quasi in speranza, ad indicare una via che a tutti appartiene o può appartenere.
Le maschere in scena con Danio Manfredini, maschere da lui stesso ideate, coprono i volti di Vincenzo Del Prete, che è anche aiuto regista, Ivano Bruner, Giuseppe Semeraro, Cristian Conti e Darioush Forooghi che con efficacia compongono le oniriche ante di questo, molto pittorico, polittico scenico.
Le scenografie sono di Rinaldo Rinaldi, Andrea Muriani e Francesca Paltrinieri, il disegno luci di Luigi Biondi, fonico Francesco Traverso, mixaggio colonna sonora a cura di Marco Maccari – Peak Studio Reggio Emilia.
Una produzione di La Corte Ospitale, coprodotta dalla Associazione Gli Scarti di La Spezia e da Armunia centro di residenze artistiche di Castiglioncello. Una drammaturgia importante, ricca di suggestioni e di stimoli, intelligente nella messa in scena che ha ricevuto il giusto tributo di applausi.