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Per comprendere a fondo l’operazione attuata dal regista Francesco Saponaro, sarebbe opportuno conoscere la poetica dell’autore Enzo Moscato, che firmò questo testo nel 1985 e che negli anni Ottanta ambientò questa storia, scegliendo come protagonisti due travestiti dai nomi caratterizzanti: Bolero Film e Grand Hotel. Coloro che hanno vissuto i fantasmagorici anni delle telenovele e dei fotoromanzi, comprenderanno immediatamente la scelta dell’autore di utilizzare questi nomi/maschere, così come spesso accade nella genealogia di tutti i suoi personaggi, e di quelli degli altri autori attivi all’interno della drammaturgia napoletana tra gli anni ’70 e gli anni ’80. Chi è a conoscenza della produzione teatrale di quei tempi, avrà anche notato che è stata volutamente evitata la definizione di “nuova drammaturgia napoletana”, ormai caduta in disuso, o meglio, divenuta caratterizzante di un certo classicismo drammaturgico che così, oggi, deve essere considerato. E su questo termine dobbiamo soffermarci, ossia “classicismo”, perché Saponaro ha ben compreso quanto la drammaturgia di quegli anni, innovativa, scabrosa, irriverente e sconvolgente, oggi sia divenuta un vero e

proprio classico. Come spesso ribadisce lo stesso Moscato, la nuova drammaturgia forse non è mai esistita nella sua connotazione di prosecuzione e di rivoluzione a ciò che andava in scena prima, bensì bisognerebbe considerarla come un filone assolutamente differente e coesistente, così come oggi, ancor di più, è obsoleto definirla “nuova”. Saponaro sceglie, dunque, di rispettare l’ambientazione, ossia il post terremoto dell’Ottanta che è sradicamento, culturale e linguistico, ma che, probabilmente, non è l’unico movente e l’unica causa di un notevole cambiamento all’interno di una cultura campana fortemente radicata e, nello stesso tempo, improvvisamente sconvolta. Il concetto, dunque, di coesistenza dell’antico e del nuovo, del tradizionale e dell’innovativo, è il codice per comprendere, a quei tempi, cosa stesse succedendo, e oggi, per descrivere un “classicismo su diversi piani”, perché così può essere definito il rapporto tra il mondo eduardiano e quello della cosiddetta nuova drammaturgia napoletana. Ma dobbiamo anche considerare il nuovo concetto di classicismo, letto attraverso gli occhi della contemporaneità, che modifica in scena ciò che ai tempi era innovativo, e si palesa attraverso un testo che ha fatto la sua storia, pur rimanendo immortale. Ecco, dunque, che il regista pone come protagonisti di questo spettacolo, in scena presso il Teatro San Ferdinando di Napoli, dal 20 dicembre al 7 gennaio, due donne, Veronica Mazza e Lara Sansone, attrici di tradizione, ma soprattutto di grandissima esperienza. I travestititi scompaiono, o meglio, gli uomini che in origine interpretavano il travestito sono sostituiti da attrici, ricordando l’operazione già attuata, negli ultimi anni, da Imma Villa e da Carlo Cerciello sul testo moscatiano “Scannasurice”: a differenza, però, della regia di Cerciello, il concetto di travestito qui è definito e affermato, rispettando le battute del testo, ma le due donne diventano, in scena, un travestimento del travestito stesso. L’evoluzione di un testo che diventa “classico” presenta, quindi, una trasformazione importante che è segno dei tempi e di particolari scelte registiche, cogliendo, probabilmente, la scarsa coloritura che, ormai, avrebbe potuto avere il “femminiello” in scena: pensiamo, dunque, ad Imma Villa che mascolinizza la sua figura, presentando un personaggio ibrido a tutti gli effetti. Saponaro, invece, porta in scena due donne, evidentemente tali, travestite come travestiti, e caricaturali nel momento in cui provano ad essere mascoline. Se da un lato la Sansone coglie le sonorità complesse della lingua di Moscato, giocando sugli accenti, sul ritmo, sui canti e sulla partitura testuale, pur rimanendo più rigida nei movimenti, Veronica Mazza sembra alternare, con grande eleganza, la mascolinità alla femminilità, fino a raggiungere il livello più complesso di fusione, ossia il travestimento del travestimento stesso. I due travestiti abbordano, attraverso gli annunci pubblicati su un giornaletto, i carcerati di Poggioreale, prossimi alla conclusione della pena: attendono Cicala e Scialò, interpretati rispettivamente da Carmine Paternoster e da Salvatore Striano, immaginando la bellezza e le fattezze dei due delinquenti che descrivono come i loro amori promessi, nascondendo ben altro. Se da un lato la solitudine dei due travestiti emerge fortemente nel testo, qui le due donne ed il loro doppio travestimento sembrano creare una caricatura dei personaggi originali, facendo emergere solo in parte la condizione di isolamento e sottolineando, invece, il surrealismo e l’eccentricità, così come previsto dallo stesso regista. La scena sembra ribaltata e “rivoltata” verso il pubblico: si sceglie di allungare il proscenio verso la platea e di mantenere, a lungo, un sipario chiuso, broccato e barocco, attraverso cui si intravede l’interno di un appartamento caduto in miseria, quasi eduardiano. Il dialogo iniziale tra i due protagonisti è assolutamente riversato e proiettato verso il pubblico, come un percorso a ritroso da un isolamento psicologico verso un esterno ipotetico. Il mondo reale, infatti, viene solo accennato attraverso i rumori provenienti dall’esterno, dalle scale, dalle voci off, dalle battute degli stessi personaggi che alludono a ciò che avviene fuori. La realtà è vera? Quale personaggio è realmente come appare? Sul fondo compaiono macerie di mobili che, ad un primo impatto, sembrano quelle di un edifico crollato del dopoguerra, alludendo, invece, alla distruzione e al ribaltamento operato dal terremoto e dall’avvento di tempi nuovi. A far da cornice a questo scorcio decadente, appare un water malfunzionante che si erge ad altare moderno, nascosto da una tenda/siparietto all’interno dello stesso appartamento. La bassezza corporale è caratterizzante e evidenzia, ancor di più, la solitudine di tutti i personaggi e dei tempi moderni.  Suggestiva appare la scena dell’imposizione delle pene ai due malcapitati, che diventa un vero e proprio rituale: sesso sfrenato e digiuno, così come ordina il boss a cui obbediscono i due travestiti, affinché i due si arrendano, spossati e debilitati.  Bolero Film e Grand Hotel si travestono da spose assassine, streghe peccaminose, personaggi sacro-profani, che ricordano fortemente le ambientazioni di “Pièce Noire”, dando vita ad un ulteriore travestimento. L’intero racconto scivola attraverso le risate del pubblico che coglie fortemente l’eccesso di macchiettismo, allontanandosi dalle angosciose e surreali lezioni moscatiane, attraverso una regia che ha “classicizzato” un testo e che ha posto i due personaggi a metà tra coloro che erano nati dalla penna degli autori post terremoto e quelli che oggi continuano a sopravvivere, ancor più de-evoluti, come affermava Enrico Fiore, e forse meno innovativi, sui palcoscenici italiani.

RAGAZZE SOLE CON QUALCHE ESPERIENZA
Teatro San Ferdinando – Napoli
20 dicembre -7 gennaio 2017
Ragazze sole con qualche esperienza
testo Enzo Moscato
regia e scene Francesco Saponaro
con Veronica Mazza, Carmine Paternoster, Lara Sansone, Salvatore Striano
e con la voce di Gino Curcione
costumi Chiara Aversano
luci Cesare Accetta
suono Daghi Rondanini
assistenti alla regia Giovanni Merano, Gianmarco Modena
assistente alle scene Lucia Imperato
assistente ai costumi Fabiana Amato
direzione di scena Teresa Cibelli, Lello Becchimanzi
elettricista Fulvio Mascolo
macchinista Alessio Cusitore
trucco Vincenzo Cucchiara
produzione Teatro Stabile di Napoli–Teatro Nazionale, Teatri Uniti
 
Foto Marco Ghidelli