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Opera centrale nella drammaturgia di August Strindberg rappresenta una sorta di translitterazione psicologica ed interiore del dibattito sulla condizioni femminile che caratterizza la seconda metà dell'ottocento e che, non tanto paradossalmente, vede protagonisti quasi esclusivi uomini 'sorpresi' e tormentati per quella irriducibilità del femminile che andava man mano manifestandosi.
Una irriducibilità che corrodeva, essendone in un certo senso provocata, le strutture di un patriarcato, sociale e psicologico, che l'uomo stesso non sembrava più in grado di sostenere e riprodurre.
È dunque una narrazione non sulla condizione femminile in quanto tale, che la contemporanea drammaturgia di Ibsen sembrava meglio configurare, quanto su una condizione 'maschile' ovvero patriarcale resa ineludibilmente fragile e insostenibile quando è posta di fronte all'egemonia sull'immortalità che il femminile inevitabilmente detiene. Scrive in proposito Sara Piagno nel suo “Danze di

morte”: “La maternità, diventa agli occhi di Strindberg la grande discriminante che segna la differenza fondamentale e decisiva tra l'uomo e la donna, decretando l'immortalità del femminile in virtù della sua straordinaria capacità di sopravvivere a se stessa.”
Un viaggio in una mente febbricitante verso una sconfitta che si sa inevitabile ma che si combatte comunque fino all'ultima goccia di sangue, fino alla follia e in cui si riverbera, nell'ottica di Strindberg, la niciana solitudine del genio assediato da un mondo di mediocri.
Gabriele Lavia, con questa sua messa in scena, in modo acuto coglie il luogo del conflitto e ben lo rappresenta sul palcoscenico tra suggestioni surrealiste e sprofondamenti in un inconscio che manda segnali persistenti ma inascoltati dell'inevitabile.
Sulla scena e su quel salotto sghimbescio e surrealista che ne è il simbolo, si affacciano così due nuovi elementi di cambiamento sociale della borghesia all'apice, quello marxista che mette in crisi la classe dominante e quello interiore delle nuove frontiere della psicoanalisi freudiana.
Il suo è un padre costantemente tormentato e febbrile, sopra le righe, in una recitazione apparentemente realista ma che riprende nei toni e nella coloritura complessiva un certo naturalismo coevo alla scrittura.
Uno spettacolo in cui la figura della moglie Laura è una presenza continua di apparizioni e sparizioni guidate da una gestione del corpo e della mimica, da parte della molto brava Federica Di Martino, che ne enfatizza la forza 'diabolica'.
Insieme a loro, un cast valido, con Giusi Merli, Gianni De Lellis, Michele Demaria, Anna Chiara Colombo, Ghennadi Gidari e Luca Pedron.
Le belle scene, a partire dal salotto “borghese” rimodulato in sintassi surrealista, sono di Alessandro Camera, i costumi di Andrea Viotti, le musiche di Giordano Corapi, le luci di Michelangelo Vitullo, mentre Simone Faloppa è l'assistente alla regia.
Una produzione congiunta del Teatro Stabile di Genova e del Teatro della Toscana, al teatro della Corte dal 13 al 18 marzo. Uno spettacolo ben apprezzato dal pubblico.