Una umanità imprigionata in un mondo di violenza e sopraffazione, segnato da una cifra comune, la droga cioè come terminale perverso e schiavizzante dell'unico valore rimasto, quello mutante del denaro come potere che si nasconde in ogni nostra manifestazione. Questa drammaturgia di Vitaliano Trevisan, infatti, rifugge da qualsiasi infingimento o ipocrisia per guardare direttamente dentro alla sofferenza che percorre questa nostra società che, a quell'unico valore rimasto, sembra aver venduto ogni sogno di miglioramento o riscatto, politico od esistenziale che sia. Dell'intera vita rimangono le esistenze sbattute su una spiaggia di alcuni drogati, sorta di personaggi fassbinderiani però privi di un minimo cuscino affettivo, alle prese con la sopraffazione come unico metro di giudizio, come un'etica senza alternative in cui chi prevale con la forza ha comunque ragione, incapaci come sono di uscire dal cerchio rosso che il destino ha disegnato. Loro dentro a quel cerchio continuano così a mostrare qualcosa, il loro essere difettosi, che non è solo loro ma appartiene anche a tutti noi, come christus patiens o capri espiatori destinati forse a preservarci da un male così
profondamente radicato.
Un testo aspro e appuntito, questo, la cui capacità di ferire è accentuata dall'uso di un dialetto che tutto ci mostra, sulla punta di una sonorità tagliente appunto come una lama, una pièce breve ma come dilatata nel suo transitare tra passato e futuro.
È questo un mondo che sembra condannato e sembra condannarci, eppure sullo sfondo e quasi per contrasto o meglio a calco emerge l'esigenza di una umanità diversa che pure esiste, una umanità che recuperi nella gentilezza (declinazione antica di bontà e carità) la capacità di prescindere dal paradigma economico che ci domina.
La gentilezza, diceva l’imperatore e filosofo Marco Aurelio, è la delizia più grande dell’umanità, eppure ce ne siamo dimenticati attratti, come scrivono Adam Phillips e Barbara Taylor in un loro articolo sull'argomento comparso sulla rivista l'Internazionale, dall'esaltazione dell'egoismo di cui una politica ancella dell'economia si è fatta spesso vessillifera, a partire da Blair ad esempio.
Ma l'oblio non è definitivo e spesso proprio l'asprezza di una narrazione produce più effetti di una retorica celebrazione.
Efficace la regia di Massimo Mesciulam, claustrofobica come la scenografia, e all'altezza la recitazione di Andreapietro Anselmi, Simone Cammarata, Matteo Cremon, Denis Fasolo e Pierluigi Pasino, ottimi interpreti di quel dialetto.
Quarto e penultimo appuntamento dell'ottima 23^ rassegna di Drammaturgia Contemporanea del teatro di Genova, alla Sala Mercato del Teatro Modena, dal 13 al 23 giugno. Molti gli applausi estesi al drammaturgo eccezionalmente presente.
Foto Lanna