La ventesima edizione di “SUQ FESTIVAL” che ogni anno percorre le strade della Genova estiva nel segno del dialogo tra le culture e di quella multietnicità tradizionale, anche se ora molto problematica, delle grandi città portuali del Mediterraneo, ha nelle donne il suo segno caratteristico, come sottolinea Carla Peirolero ideatrice e direttrice del “Suq”, perché le donne di ogni dialogo e di ogni futuro sono il fondamento essenziale e, direi, antropologico. Anche per questo la tradizionale rassegna teatrale che Suq custodisce ha quest'anno appunto il titolo molto significativo di “Rassegna Teatro del Dialogo”, ospitando lavori che hanno nel femminile il loro nucleo significativo e narrativo. Venerdì 22 Giugno, nel suggestivo scenario dell'Isola delle Chiatte, centro galleggiante del Porto Antico di Genova, è stato il turno della Compagnia Teatro dell'Argine di Bologna, da sempre aperta e coinvolta in questi temi oggi scottanti, che ha portato in scena questa drammaturgia dello scrittore rumeno Matéi Visniec. È una accurata sovrapposizione scenica di storia e psicologia che, nella interpretazione in termini freudiani delle pulsioni tragiche che hanno attraversato le guerre nella ex
Jugoslavia, riesce a portare alla luce il senso di tragedie esistenziali altrimenti celate e, man mano, dimenticate.
In una clinica delle Nazioni Unite si sviluppa il rapporto tra la psicologa americana di una missione umanitaria ed una donna stuprata in una delle tante (troppe) incursioni di guerrieri balcanici, etnicamente vendicatori, che utilizzavano lo stupro etnico con l'intenzione palese di annientare il nemico proprio nel suo stesso futuro, nella sua capacità cioè di rinnovare la propria vita.
La drammaturgia disegna così, talora con accenti comici, un maschile imprigionato nella contraddizione della stupida difesa di sé e della speculare distruzione dell'altro, contraddizione che non può che portare all'annullamento di ogni umanità nell'ottusa ricerca dell'oblio che l'alcol sembra apparentemente garantire.
Un maschile garante quasi delle differenze e della reciproca sopraffazione come nel divertente e insieme dolente balletto dei “ma”.
Di fronte a questa pulsione di annientamento dell'altro e della sua dignità, e dunque anche di sé, ancora una volta la resistenza del femminile, custode talora con sofferenza e rigetto, della vita stessa e quindi, nella sua essenza e anche nella sua metafisica, dell'umanità complessivamente considerata, oltre lo stesso genere.
Una custodia che produce una resistenza incrollabile nonostante le offese che, anche durante quella guerra sanguinosa in cui sono emerse pulsioni che credevamo superate, sembrano sommergerla ma da cui nonostante tutto riemerge con più forza.
La psicologa che viene dall'occidente che si beava della sua superiorità e dei suoi “diritti umani”, sconvolta dal suo compito di assistere chi si occupa di censire le fosse comuni che hanno costellato la guerra tra Serbi, Croati, Bosniaci mussulmani, ritrova l'equilibrio proprio nel rapporto con questa donna ferita che elabora a poco a poco il suo dolore.
Dora, questo il nome della donna di Bosnia, darà alla fine alla luce il suo figlio della guerra, segnando ancora una volta la superiorità della vita e della sua custode.
Una bella drammaturgia che la regia di Nicola Bonazzi esalta ancora di più, mentre su una scena apparentemente vuota ma piena dei simboli di un riscatto possibile, le brave Micaela Casalboni e Silvia Lamboglia danno intensa vita scenica alla storia di due donne che sono come un' isola di comprensione e conoscenza in un mondo sempre più confuso.
Molti gli applausi.