Nel cinquantesimo anniversario del Sessantotto, un nuovo allestimento di “Avevo un bel pallone rosso” (Premio Riccione 2009; Premio Golden Graal 2010; premio Molière per l’allestimento francese) con la regia di Carmelo Rifici. Il testo racconta la storia di una donna o meglio la storia del percorso che Margherita Cagol compie dall’adolescenza in una famiglia benestante, fino a diventare Mara, moglie di Renato Curcio ed esponente delle Brigate Rosse. Due donne in una, della prima si smarriranno le tracce, la seconda sarà ricordata per sempre con dolore. “Avevo un bel pallone rosso e blu, ch’era la gioia e la delizia mia. S’è rotto il filo e m’è scappato via, in alto, in alto, su sempre più su. Son fortunati in cielo i bimbi buoni, volan tutti lassù quei bei palloni”: così scriveva la piccola Margherita nei suoi quaderni d'infanzia. Una filastrocca come metafora di una vita. Questa bambina sarà da tutti conosciuta con il nome di battaglia “Mara”. In modo particolare il testo si sofferma sul rapporto
padre-figlia, un amore profondo, messo alla prova dagli eventi storici e dalle scelte personali. Carmelo Rifici con semplicità e profondità si sofferma ad analizzare le parole e i silenzi di quest’amore. Un’ installazione video, con l’immagine sfocata di Cristo alle spalle del padre, incombe sull’uomo seduto in poltrona, il capo chino, la scena si apre così. Il padre in croce, perché il dolore di un genitore che non riesce a salvare una figlia, da una scelta che la condurrà alla morte, è un dolore che solo chi vive sulla propria pelle può comprendere pienamente. Il Cristo diventa poi l’immagine sfocata di Curcio, di Stalin, al dogma cattolico, si sostituisce il dogma del comunismo trasformato in totalitarismo, il pericolo è sempre nelle forme di pensiero che diventano fondamentalismi. Le immagini che arrivano dal video sono sfocate, confuse, perché la storia di quegli anni è ancora avvolta nella nebbia, c’è ancora molto su cui riflettere. Lo spettacolo è costruito su uno spazio scenico semplice: un piccolo salotto, una cucina, luoghi in cui le famiglie si riuniscono per dialogare, confidarsi, raccontarsi. Padre e figlia parlano ma non si comprendono a fondo: la figlia in cerca di un ideale a cui aggrapparsi, il padre in cerca di una ragione per comprendere e in mezzo a tutte queste incomprensioni emerge il silenzio della madre assente. Intorno alla scena, una griglia di metallo avvolge il padre e la figlia come le griglie di un confessionale. Due confessioni quella del padre e quella della figlia. Angela Demattè con dialoghi taglienti e fluidi si sofferma sulla vicenda umana di Margherita/Mara Cagol. Nel testo, l’Italiano si contamina con la lingua tagliente e cruda del dialetto: la lingua come elemento caratterizzante e simbolico di una storia. A Trento vediamo Margherita, studentessa modello, ama la musica, suona la chitarra; a Milano Margherita diventa Mara, combattente delle Brigate Rosse. A Trento Margherita parla il dialetto e si pone di fronte al padre con ribellione ma sempre con amore, a Milano Mara non parla più il dialetto ma un italiano ideologico, fatto di frasi fatte e slogan, si pone di fronte al padre con una visione fondamentalista. Due brani musicali indicano momenti di passaggio dello spettacolo, segnano la fine di un amore e di un sogno. Quello di una generazione che ha provato a cambiare le cose: “Canzone” di Don Backy e “Ipocrisia” nella versione di Angela Luce. Il primo brano del 68, il secondo del 75. Dal “più bel sogno” di cambiamento, alla dolorosa realtà della lotta armata. Andrea Castelli e Francesca Porrini ottimi interpreti, si calano nei panni dei personaggi con sensibilità e intelligenza e rispetto per la storia che stanno interpretando. Una storia tutta da studiare ancora, le regie di Rifici hanno sempre il merito di lasciare un dono allo spettatore: il desiderio di arricchire e approfondire quanto visto in scena. Il teatro come il più bel sogno.
Milano, Piccolo Teatro Studio Melato, 1° Novembre 2018
Foto Luca Del Pia