In occasione del passaggio in tournée a Roma del Teatro delle Albe con il loro “Va Pensiero”, è stato programmato nella sala dell'Associazione Culturale Apollo 11 il film di Marco Martinelli “Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi” tratto, o meglio ispirato e trascritto, dalla omonima drammaturgia tuttora nella programmazione del Teatro delle Albe. La proiezione, giovedì 15 novembre, è stata preceduta da una interessante introduzione/presentazione che ha visto la presenza del regista Marco Martinelli, di due delle protagoniste Ermanna Montanari (che come noto è anche co-ideatrice del film) e Sonia Bergamasco, nonché, quale coordinatore, del critico e studioso Emiliano Morreale. È stata una occasione importante per ragionare sulla trama estetica del film, nelle sue assimilazioni e nelle sue differenze con la drammaturgia, e insieme discutere, aggiornandolo, dell'impatto latamente politico che la narrazione ha avuto e ha anche sul dibattito che si è sviluppato in Italia intorno alla figura del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, soprattutto dopo la sua liberazione, l'elezione e la sua nomina nel governo del paese. Una parte dei convenuti, infatti, si è soffermata sulle polemiche
conseguite ai controversi interventi sulla minoranza dei Rohingya oggetto di persecuzioni da parte del regime militare birmano, persecuzioni che il nuovo governo democratico di Aung San Suu Kyi non sarebbe stato in grado di arginare e modificare, divenendone così, secondo alcuni, complice.
Il dibattito quindi, mantenendosi peraltro nei limiti della correttezza e del rispetto, ha sottolineato le contraddizioni dell'attuale fase, lamentando l'assenza di voci quali “Amnesty International”, che per altro ha patrocinato il film, all'interno della quale fase sono stati comunque rimarcati i limiti operativi oggettivi del nuovo governo e insieme le azioni che personalmente Aung San Suu Kyi ha cercato di porre in atto per superare positivamente la situazione.
D'altra parte, a mio avviso, è potuto emergere che il film, che si è giovato anche di un cameo di Elio De Capitani, pur oggettivamente immerso in un contesto storico e anche profondamente politico, in realtà abbia cercato di approfondire il suo sguardo estetico non tanto sulle azioni, quanto sui mutamenti e sulle evoluzioni spirituali, intime, che tali azioni anticipavano e giustificavano, prima e oltre gli esiti concreti di quelle stesse azioni.
È soprattutto dunque, una indagine sull'anima, sulla vita intima di questa donna che ha attraversato una temperie politica e sociale tragica, quella del suo paese oppresso dalla dittatura militare, opponendo ad essa la forza di una intimità man mano più consapevole, la forza di una “bontà” vissuta come arma per disinnescare la violenza e unificare le vite. È questo percorso dell'anima alla ricerca di una sua luce il tema del film, una luce però che non si chiude in sé stessa ma si apre alla operatività 'positiva' nel mondo. Del resto i paragoni con Gandhi proprio in questo possono appoggiarsi e giustificarsi.
Ma è anche una indagine che l'interpretazione di Ermanna Montanari tinge di femminile, perché all'interno di quella universalità è pur sempre una donna che vive e agita i suoi sentimenti con una sensibilità sempre particolare e singolare.
È straordinaria a questo riguardo, per chiarezza e profondità, la scena muta che la Montanari recita con grande maestria in cui è ripercorsa la sofferenza della donna di fronte alla malattia e alla morte del marito mentre è impossibilitata a raggiungerlo perché sa che se fosse partita le sarebbe stato impedito di tornare. Una scena che attraverso la simbologia dei gesti e delle espressioni, che ricorda la cultura dell'oriente, mobilita nell'intimità la sofferenza nel momento stesso in cui la trasfigura.
Ma c'è a mio avviso un altro momento particolare del film che sottolinea questo aspetto, e la presenza di Sonia Bergamasco dà il destro per ricordarlo, ed è la scena che ripercorre l'intervista della giornalista occidentale di Vanity Fair a Aung San Suu Kyi ancora rinchiusa agli arresti domiciliari nella sua casa.
Il confronto tra la donna dell'occidente, apparentemente emancipata di una emancipazione che però talora è anche una frattura con la propria più autentica intimità, e la donna birmana che proprio in quella interiorità cercava la forza e gli strumenti della sua liberazione, e della liberazione del suo popolo, il confronto e la reciproca incomprensione sono al riguardo illuminanti. Un contrasto e una frattura peraltro sottolineate dalla diversa modalità di recitazione che la regia ha voluto a caratterizzare ciascuno dei due personaggi, dai toni naturalistici l'una e straniati/stranianti l'altra.
Questo a mio avviso è l'obbiettivo del film, illuminare un processo interiore senza separarlo dalle conseguenze che ha prodotto e senza dimenticare le contraddizioni successive, ma potendole inquadrare in un contesto significativo più articolato.