In ogni tradizione letteraria o teatrale o anche, genericamente, artistica ci sono dei motivi che ritornano, dei luoghi dello spirito e della riflessione/mimesi/invenzione letteraria o teatrale che negli anni hanno assunto un valore paradigmatico, sono diventati topoi che occorre conoscere ma che poi è difficilissimo usare quando si costruiscono nuove narrazioni che in qualche modo devono contenerli. È questo certo il caso delle grandi miniere di zolfo siciliane e della loro presenza, non solo nella memoria di tante famiglie siciliane e nella cultura popolare di buona parte dell’isola, ma anche in numerose e celeberrime pagine della letteratura siciliana (Verga, Pirandello, Sciascia, Rosso di San Secondo): luoghi di sfruttamento bestiale, di schiavitù, luoghi di lavoro e sacrificio, di dolore, di lutto e di affetti stroncati, luoghi di costruzione di ricchezza e di lotta politica, di economia proto-capitalistica, luoghi capaci di generare racconti e fantasmi. È questa la prima difficoltà che affrontano opere
come “Pinuccio”, lo spettacolo che Aldo Rapè (attore, regista, teatrante a tutto tondo e da qualche tempo anche direttore del Teatro pubblico di Caltanissetta), ha presentato sabato 23 febbraio scorso sulla scena dello “Spazio Franco” a Palermo. Si tratta della storia di Peppino, un bambino rinominato Pinuccio appena prima di cominciare a lavorare nella miniera di zolfo di Gessolungo a Caltanissetta, a dieci anni: rimasto orfano di padre (zolfataro morto nel buio di quella stessa miniera), diventa “carusu di miniera” e scende a lavorare nudo nelle viscere della terra con gli altri due suoi fratellini (rispettivamente di otto e sei anni). Inutile dire l’orrore che può suscitare oggi il pensiero di un così violenta pratica di sfruttamento che si è abbattuta su bambini inermi nelle nostre terre, in Europa, nel cuore del Mediterraneo, sino a pochi decenni fa. Ciò che conta politicamente è che pratiche del genere siano state abolite e siamo giustamente rifiutate ed esecrate moralmente. Dal punto di vista artistico ne scaturisce il rischio, presente e pressante, di cadere nel già visto/già sentito e quindi, sostanzialmente, di lavorare su qualcosa che non ha vera necessità estetica. Un rischio paralizzante e non facile da evitare del tutto. Aldò Rapè sa trovare però il modo per venirne fuori (quasi) indenne: è il modo è lo stile dell’attore, la cura del linguaggio teatrale e del ritmo, il sorvegliato e lentissimo dispiegarsi della parola d’attore che è suono, corpo, ritmo, consapevolezza storica, incantamento. Interessante, densa di echi e ben calibrata anche la presenza degli apporti sonori prodotti da vivo da Sergio Zafarana. Uno spettacolo insomma lieve e ben fatto, che suscita emozioni e domande che afferiscono, con autenticità, alla sostanza storico-politica del nostro presente e della nostra umanità globalizzata. Certo ci vuole intelligenza e un bel mestiere per arrivare a questo punto ed è la bella sorpresa che in questo lavoro Rapè riserva al suo pubblico.
PINUCCIO
di e con Aldo Rapè, musiche originali dal vivo Sergio Zafarana, Zafarà. Produzione Prima Quinta Teatro. Crediti fotografici di Lillo Romano.