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È l'ultimo lavoro originale firmato ricci/forte, alias Stefano Ricci e Gianni Forte, drammaturghi di confine dal segno fortemente performativo, in un contesto estetico di deformazione metamorfica della sintassi e della parola stessa, quasi rovesciata a mo' di guanto nel suono che produce e che, nel percorso scenico, si impone, nuovo significato, al vecchio significante deformato nel corpo che lo sostiene e nella musica che insieme evocano. Una scena bianca, garza trasparente su una ferita mai rimarginata, due donne, una forse malata e sofferente su una sedia a rotelle e quella che, ancora forse, è la sua infermiera, e dentro questa scena fiori gialli come pulcini appena nati, suggerimenti di una vita non ancora perduta, a colorare volti mascherati e, infine, una bara spoglia come una aspettativa incerta. Su tutto questo, ad allacciare e scoperchiare nuove relazioni tra fisico e metafisico, tra essenziale ed esistenziale, tra umano e divino chissà, la parola di Marina Cvetaeva,

attorcigliata nel suo simbolismo e alimentata da una energia inaspettata, dai toni futuristi man mano mortificati da delusioni e dolori, da confini che appaiono e che non siamo in grado di transitare oltrepassando noi stessi.
Una parola attribuita e riferita ad altri e da altri, più che una parola citata, e una parola che i drammaturghi rimescolano, spezzano e travestono  per condividerla nel profondo.
È uno straordinario amalgamarsi di segni drammaturgici e di suggestioni liriche, un reciproco trovarsi ed accordarsi come una orchestra al suo debutto, perché la tensione performativa di ricci/forte appare qui in straordinaria sintonia con il testo della Cvetaeva, ricevuto come un dono.
È un andare oltre insieme, uno stare nel profondo e al di là del limite che la vita ci impone, come insegna la vera poesia che sempre si colloca a lato di noi, spesso chiedendoci in sacrificio proprio i tempi e i luoghi di una esistenza vissuta prima ancora di essere sognata.
Marina Cvetaeva, lo intuiamo, ha vissuto la poesia non come balsamo e oblio di una vita complessa e tragica nel suo esito, bensì come una sorta di bisturi per scoperchiare ed incidere, ambendo a guarirlo, un male di vivere che l'ha trovata e infine travolta.
La drammaturgia ne coglie i segnali e recupera gli inciampi di un percorso che si fa simbolo di se stesso, e così, nei movimenti scenici, nelle relazioni reciproche che quei movimenti tracciano tra le due protagoniste e tra loro e gli oggetti che le circondano, quasi a richiamarle costantemente al senso di ciò che fanno, può ripercorre una parabola prima estetica e poi esistenziale.
Rimane l'impressione, o magari l'illusione, di percepire in quel percorso la nostra contemporaneità in dissoluzione tra impeti consumistici e valori che si perdono, come la fede in una possibile libertà soggettiva e collettiva.
Una bella drammaturgia, dal respiro europeo, che conferma le qualità del duo. In scena la bravissima Anna Gualdo, la donna in carrozzella, centro di ogni movimento corporeo e sonoro, e con lei a reggere il confronto Liliana Laera capace, quasi in controscena, di enfatizzare ed esasperare suggerimenti e suggestioni.
La regia è di Stefano Ricci, i movimenti a cura di Piersten Leirom e il suono, davvero belli, di Andrea Cera.
Spettacolo in tournée dal novembre 2017, ospite del Teatro Nazionale di Genova al teatro Duse per due giorni, l'8 marzo delle donne ed il successivo 9 marzo. Numeroso il pubblico arrivato anche da altre città per vedere lo spettacolo  che ha a lungo applaudito.