È una drammaturgia che, mi si perdoni il calembour, mette in scena i drammaturghi/attori, tre per la precisione, Francesco Alberici, Dario Deflorian e Antonio Tagliarini che attraversano una scena vuota ed occupata, a caso ma con logica, da cinquanta sedie su cui cinquanta interlocutori ascoltano il loro racconto. Al confine tra coinvolgimento e distacco, in quel luogo sospeso, una sorta di limbo, che anticipa la concretezza scenica, i tre drammaturghi parlano a noi ascoltando innanzitutto se stessi mentre percorrono un quasi heideggeriano “sentiero nascosto o perduto”, di avvicinamento, di indagine intima e di riscoperta psicologica tra memoria e onirismo del film “Il deserto rosso” capolavoro pluri-premiato del 1964 di Michelangelo Antonioni, epitome della “incomunicabilità”. Una storia semplice, quella di Giuliana (Monica Vitti), anzi forse una non-storia nel senso che non si muove dal suo baricentro, una storia di solitudine femminile e insieme universale, oltre-genere, una storia di
scarnificazione alla ricerca forse di un impossibile affetto/contatto seppellito da maschere e incrostazioni ipocrite, una storia aperta, aperta nella conclusione e aperta sulla nostra intimità.
Nell'immersione in questa angusta apertura, velata e opaca come il panorama o un dipinto sfocato, i tre drammaturghi rintracciano e ripercorrono un proprio mondo interiore, fatto di ricordi associativi suggeriti da luoghi e gangli della narrazione di Antonioni, come il tema della parrucca che porta con se immagini di relazioni filiali abbandonate ma sempre attive.
Ovvero scoprono la natura di proprie intime aspettative e di propri dolori e delusioni che nel tema dell'abbandono riassumono la difficoltà a gestire e irrobustire la relazione con l'altro, spesso all'insegna del desiderio di fuga, nostro e dell'altro.
Un percorso che facciamo insieme, sulle nostre sedie che sembrano spostarsi nello spazio ad inseguire le parole 'dette', una peripezia che sembra ribaltare lo sguardo dal fuori al dentro, ma con quel senso di 'normalità' e familiarità che caratterizza la struttura degli spettacoli di questa compagnia, che occupa il luogo del teatro performativo insieme a quello del teatro di narrazione, come nel recente “Il cielo non è un fondale” già recensito in queste pagine.
Un lavoro che anche stavolta tende quasi a recuperare i luoghi comuni che affollano, in questa contemporaneità dai tratti sfocati come gli orizzonti di Antonioni, le nostre conversazioni e anche i nostri pensieri, per ribaltarli e smascherarli, come ad esempio quello della bellezza e dell'età che non si divaricano come solitamente crediamo.
Un progetto di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, collaterale al loro spettacolo “Quasi niente”, con la consulenza letteraria di Morena Campani, prodotto da A.D. e Festival di Santarcangelo in collaborazione con l'Istituto Italiano di Cultura di Parigi, residenza produttiva Carrozzerie/n.o.t. Roma.
Al Dialma Ruggero di La Spezia per la stagione di Fuori Luogo, il 31/3. I presenti hanno a lungo applaudito.