La sottile linea nera che disegna una canna sullo sfondo di una palude che si vorrebbe ora prosciugata, circonda in scena le parole di narratori, protagonisti e poeti e ci rammenta quanto è sottile il confine tra la vita e la morte quando l'umanità tramonta e lascia spazio alla indifferenza e alla banalità sorda e ottusa che sempre accompagna la brutalità della guerra. Siamo nel Padule di Fucecchio, tra Firenze, Pisa e Pistoia, nell'agosto del 1944 mentre l'esercito tedesco e nazista si ritira accompagnato dai suoi collaborazionisti fascisti, e tra quelle paludi e quei canneti, rifugio di uomini in fuga e donne disperate, si consuma uno degli eccidi più gravi, anche se non tra i più noti, della seconda guerra mondiale con l'efferata uccisione di 174 persone tra uomini, donne e bambini. Ma potremmo ugualmente essere nel Vietnam diviso degli anni 60, oppure nella ex Jugoslavia dilaniata dall'esplodere di una convivenza che sembrava solida, o addirittura nel Burundi di vent'anni fa mentre si consumava un genocidio dai contorni quasi insostenibili. È questa, infatti, una drammaturgia che, trascritta per la scena dal bravo Andrea Mancini su un testo/inchiesta condotto sul campo di Riccardo
Cardellicchio, contamina il più classico teatro di narrazione translitterando la verità storica degli eventi in una sorta di storia intima e lirica che guarda ai sentimenti e alle relazioni, al senso ultimo cioè che quegli eventi assumono rispetto alla essenza del nostro essere 'umanità' e del nostro riconoscerci come suoi membri.
Così attraverso l'alternarsi tra i tre personaggi in scena del racconto, quasi brechtianamente alienato nel narratore, più psicologicamente partecipato e naturalistico nella donna, con le metamorfosi liriche tratte dalle “Lamentazioni 1944” del poeta Enzo Fabiani del terzo e sovrapposto protagonista, non assistiamo ad una celebrazione, peraltro sempre dovuta, ma piuttosto ci immergiamo in un mare profondo di ricordi e di sentimenti, e pertanto di quegli eventi in un certo senso diventiamo parte per non dimenticare mai.
Vengono qui alla mente alcune considerazioni di Edoardo Sanguineti, in una intervista concessami anni fa, proprio in ordine al rischio che non ci sia seguito all'impatto emotivo immediato e si cada “in una sorta di strana omologazione commemorativa che non favorisce realmente una presa di coscienza autentica”.
Questo spettacolo, invece, ci induce a diventare a nostra volta narratori capaci di farci carico del nostro sguardo e di trasmetterlo agli altri. Perché altrimenti l'oblio anticipa l'indifferenza e l'indifferenza lascia trascorrere tra di noi e attraverso di noi il male anche quando vogliamo esserne inconsapevoli.
Riproporre la memoria ricostruendola nel qui e ora della scena, dunque, non è solo segno dell'impegno di chi considera il teatro come una articolazione della comunità intesa come polis, ma è soprattutto una necessità, per noi e per i giovani, in una società e in un momento storico che, tra revisionismi e un aggressivo negazionismo, sembra potere ripresentare sotto la maschera della banalità appunto, come ha insegnato Hannah Arendt, antichi silenzi e tragiche pulsioni.
È allora necessario saper chiamare con il proprio nome e con nettezza quel male, liberato senza freni e senza giustificazioni nell'antico Padule di Fucecchio, perché denominare vuol dire conoscere, fare entrare nell'esperienza di ciascuno di noi affinché sopravvivano, alimentati dalla memoria, gli anticorpi per combatterlo quel male. Questo a mio avviso è uno dei meriti de “L'eccidio”.
In una scena semplice e bianca, tra oggetti geometrici e bellissimi disegni che si proiettano sullo sfondo e sugli stessi attori, dando figurativa realtà alla storia mentre viene narrata, Alberto Ierardi, Marta Paganelli e Giorgio Vierda ne sono i bravi protagonisti, ben diretti da Enrico Falaschi che ripropone con attenzione e passione lo spettacolo a venticinque anni dalla sua prima rappresentazione.
Disegno dal vivo di Alessio Trillini, scenografie di Angelo Italiano e Marco Sacchetti, luci di Nocolas Baggi e costumi di Chiara Fontanella.
Una produzione Teatrino dei Fondi che si divide tra Fucecchio e San Miniato, con numerosi sostegni che testimoniano del legame profondo che unisce quel territorio, i suoi borghi e le sue comunità al loro teatro, legame ribadito dalla presenza in sala di tre sindaci ma soprattutto dalla chiamata sul palcoscenico di una delle ultime testimoni della tragedia, allora bambina, che con commozione, sua e nostra, ha saputo dare pregnanza e presenza all'occasione.
In prima nazionale al Nuovo Teatro Pacini di Fucecchio il 13 aprile. Molto ben accolto.
foto di Andrea Gianfortuna