Siamo dietro le quinte di una ipotetica conferenza stampa di presentazione di un film in preparazione e, quindi, è come sbirciare, non visti, in un luogo dove non dovremmo essere ma che, nonostante questo, appare predisposto per noi con il distacco alienante del finto parlare tra sé e sé, o meglio, delle controscene che svelano. Metateatro oppure no, finzione o sovrapposizione di identità nell'attore, la drammaturgia vuole essere una indagine attraverso la scena sulla personalità storica di tre donne famose, e non in positivo, cioè la filippina Imelda Marcos, la tunisina Leila Ben Alì e la tedesca Margot Honecker, donne dal cognome 'pesante' che vivevano il potere per tramite e in coppia/copia con i mariti, ma non alla loro ombra bensì come una sorta di eco che enfatizzava e moltiplicava.
Un approccio eclettico ed eterodosso, acido e senza alcuna benevolenza, esposto nella grottesca deformazione degli effetti perversi che queste donne, i loro desideri, le loro ambizioni, i loro atti, le loro stesse parole hanno avuto sui loro popoli oppressi.
La storia, anzi la Storia, è nota ed è superfluo ricordare, tragedie e oppressioni, vite distrutte e piegate dalle loro tirannie di 'rimbalzo', ma resta il paradosso di tre donne incapaci di resipiscenza o dubbio.
È una drammaturgia dunque che sembra ruotare intorno all'equivoco di un potere al femminile che è grottesca ricopiatura del potere ancora saldamente maschile, un potere non mitigato né riscattato ma solo sfruttato.
Il loro agitarsi in scena, il loro confrontarsi e reciprocamente attaccarsi, infatti, ruota intorno all'unica presenza maschile, uno pseudo traduttore, che si capisce vittima dei campi di rieducazione di Frau Honecker, legato alle loro vite in un rapporto sado-masochistico che alimenta il gioco ed il finale massacro.
Una drammaturgia di ambizione e valide intenzioni la cui resa scenica però appare in parte scivolare dal grottesco ironico alla farsa comica con personaggi che man mano si mutano in caricature di sé stessi, quasi a tentare di sfuggire etica e giudizio, così che anche la denunzia storica della distorsione del potere contemporaneo appare depotenziata.
In scena Ernesta Argira, Cristiano Dessì, Lisa Galantini e Irene Villa sembrano talora guidate dal personaggio più che guidarlo.
La regia di Barbara Alesse e la versione italiana di Clelia Notarbartolo non sembrano infine sfruttarne appieno le potenzialità.
Terzo spettacolo della “Rassegna di drammaturgia contemporanea” del Teatro Nazionale di Genova, alla Piccola Corte dal 12 al 22 giugno.