Su una spiaggia di una qualche costa del Mediterraneo, tre donne attendono una barca e poi una nave che deve condurle oltre il mare, alla salvezza da una guerra brutale che le ha insanguinate fuori e dentro e ha insanguinato la terra di figli e mariti. Mitici e oscuri come traghettatori dell'Ade, o tragicamente contemporanei come gli scafisti attenti, da eccellenti falangi di un capitalismo senza virtù e senza valori, al guadagno che da quella guerra e da quella fuga possono conseguire, comunque attesi da una sottomissione antica che sembra perenne sotto la sferza della violenza e della sopraffazione, anche quando si ammanta dei panni della regalità condivisa. Uomini anch'essi, forse non molto diversi da quelli amati e sposati nei tempi felici in cui Troia signoreggiava regale e tollerante su quella piana di fronte al mare, le tre donne li attendono e insieme li temono, temendo la loro stessa debolezza, figlia e schiava della loro solitudine e della divisione reciproca, introiettata in
usanze e consuetudine, cui sono abituate e talvolta partecipi.
Intorno nell'oscurità che sta per aprirsi alla luce dell'aurora, centinaia, migliaia di altre donne con le povere cose salvate ed i figli attaccati al seno, divise dalla vita e accomunate dalla sorte drammatica che lì le ha condotte.
Una drammaturgia che non è solo o tanto una riscrittura, bensì è una suggestione che affonda le sue radici nelle Troiane di Euripide, canto universale di una sofferenza sottile e nascosta che la guerra estremizza e rende palese, una guerra giustificata talora per una donna e riversata infine con tutto il suo sangue su tutte le donne, quasi a giustificare quegli stessi uomini che la esercitano.
Ecuba, Andromaca e Cassandra sono quelle tre donne trasportate da un lontano passato, esistenziale e storico, su quella spiaggia e che su quella spiaggia mettono in scena con le parole dell'oggi un dolore che non ha tempo, un dolore ultra-soggettivo che diventa monito essenziale, universale, per tutti, oltre il genere e i generi.
Sono tre donne che riconosciamo subito, nelle particolarità caratteriali così evidenti della madre possessiva, della suocera, della moglie che ha vissuto d'ombra fino alla tragedia del figlio ucciso, ovvero della donna che vede la sua sorte e non può cambiarla.
Le loro sono parole dell'oggi così impastate con la loro storia da rendere le loro radici scoperte, in un narrazione così profondamente fedele alla trama Euripidea da trasfigurarsi.
Così alla fine, le tre regine troiane, alzando il loro lamento sui delitti che le precedono e sulle schiavitù che le attendono, si fanno portatrici dei delitti e delle schiavitù dell'oggi, dal femminicidio, alle torture delle tante guerre che ci circondano, alle schiavitù che seguono alle disperate fughe, e a quelle che ci nascondiamo in casa alzando lo sguardo altrove.
I loro sono i nomi di tante, di tutte, e i vari Ettore, Achille, Priamo si sovrappongono alla guida delle barche di disperati. Ma se si sta insieme, se si superano i confini che altri hanno posto tra di loro, e si cerca la salvezza comune, allora la forza delle donne si fa potente e sulle barche potranno prendere posto tutte, “non una di meno”.
Una bella drammaturgia di Manlio Marinelli, dramaturg del Teatro Libero di Palermo Teatro Stabile di innovazione, con Stefania Blandeburgo, Giulia Rupi e Silvia Scuderi efficaci nella mimica e nei movimenti recitativi, luci di Fiorenza Dado e Gabriele Circo.
La regia di Lia Chiappara, che cura anche scene e costumi all'altezza, riempie la scena di suggestioni come di naufragi che riemergono dal tempo che fu, dando figuratività alla trama drammaturgica.
Al Festival “In una notte d'estate” di Lunaria Teatro, il 23 luglio in Piazzetta San Matteo a Genova e il 24 luglio a Sestri Levante. Pubblico numeroso come sempre in questa edizione e molte chiamate in scena.