La danza si sa è un esercizio di equilibrio, ma non in senso tecnico, piuttosto perché, io credo, da sempre vive in equilibrio tra il darsi ed il ritrarsi, tra il segnare e consumare il proprio spazio, parabolico e circolare, ed il renderlo aperto e coerente con l'altro che lo attraversa. È per sua natura il mondo del sé che diventa consapevole, e dell'altro che lo guarda ed insieme si guarda, costruendo identità e storia. Peraltro, in questi ultimi anni, è sempre più raro assistere a spettacoli di gruppo, a compagnie di danza che il sé e l'altro coinvolgono nel medesimo spazio scenico. Nella nostra contemporaneità, al contrario, il palcoscenico è diventato in prevalenza il luogo di un performer o di una performer solitaria, che quello spazio con la sua danza fatica a tenere aperto quasi vi precipitasse ineluttabilmente il disagio della persistente crisi delle relazioni affettive e psicologiche, che vira ormai nella liquidità e virtuale vuotezza che ci contraddistingue. Anche questa performance coreutica è solitaria ed
insieme rifrangente, quasi brandisse come un'arma quel disagio che attraversa un corpo metamorfico, ove la bellezza si sovrappone al rifiuto, e si contorce e maschera fino a denudare la propria angosciosa mostruosità.
Un danzare inquieto e che inquieta, in cui il filo conduttore è la riconoscibilità simbolica di una sessualità che ha perso il suo cuscino affettivo e di sentimenti, e che si deforma in segnali di dolore e perdita cui sembra non esserci rimedio.
È la stessa bellezza del corpo danzante, e quindi del corpo vivente, che sembra essere messa in discussione, anche qui quale frutto artistico di una ricerca che contraddistingue, come detto, gran parte della danza contemporanea. Attrarre e respingere, dunque, come un pendolo che oscilla senza potersi fermare.
Una ricerca che ancora una volta scopre il dolore che ci riguarda, il dolore della perdita di sé insieme alla perdita conseguente di quel linguaggio condiviso e ravvicinato che ci aiutava a capire noi e gli altri.
È come se la liberatoria consapevolezza che contraddistingueva, producendo identità, gli anni 70 e la discussione di allora su uomo e donna e sul reciproco essere, fosse perduta, lasciando un vuoto, di linguaggi ma anche di desideri profondi, che porta tutto, e tutto dissolve, in una superficie priva di profondità.
Uno spettacolo dunque che provoca disagio, nel mostrare l'accentuarsi quasi offensivo e stereofonico dei segni e dei segnali di quella sessualità, così da smascherare l'assenza di condivisione e comprensione che caratterizza oggi la comune infelicità affettiva delle donne e degli uomini.
Siamo immersi così in una atmosfera sonora ossessiva e martellante che quasi ci impedisce di soffermarci a pensare e di difenderci in fondo, mentre i movimenti si fanno sempre più dolorosi e innaturali, o meglio oltre-naturali.
Uno spettacolo in un certo qual modo anche fastidioso, ma comunque profondo ed efficace che da il segno di un Festival, il Festival Resistere e Creare diretto da Michela Lucenti e Marina Petrillo, che si mostra sin dal suo inizio ricco e interessante.
Idea, coreografia, interpretazione Francesca Zaccaria, musica originale Crayon Made Army, costume di nudo Marco Bottino ed Eva Pollio, realizzazione scene Paolo Morelli, disegno luci Aldo Mantovani e Andrea Margarolo, produzione ALDES con il sostegno di MIBACT - Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del turismo / Direzione Generale per lo spettacolo dal vivo e di Regione Toscana / Sistema Regionale dello Spettacolo. Grazie al Teatro dell’Archivolto di Genova.
Alla sala Campana del Teatro della Tosse, nell'ambito del Festival, il 28 novembre. Una sala piena ma soprattutto una sala varia e preparata che è apparsa in grado di assorbire ed elaborare un linguaggio difficile che altrove, purtroppo, avrebbe potuto suscitare perplessità. Entusiasti gli applausi.