Avevamo già compreso, dalle creazioni susseguitesi negli ultimi mesi e anni, che la “scoperta” di Dante Alighieri non fosse per Marco Martinelli e per la sua compagna di vita e di arte Ermanna Montanari (Pondus meum amor meus, eo feror quocumque feror come lui stesso la richiama sulla scia di Sant'Agostino) un evento, non dico occasionale perché improprio, ma neanche puramente estetico o artistico. Piuttosto una ri-scoperta, la percezione cioè nuovamente consapevole di un legame che va oltre la creazione teatrale per mescolarsi, miscelarsi e confondersi fin quasi ad intorbidirsi, con l'essenza della loro poesia, con la crescita interiore di esistenze concrete per caso alla ribalta, ma non per apparire piuttosto per capire. Credo nasca così, infatti, questo volume di Marco Martinelli, “Nel nome di Dante” appunto, un lavoro che accompagna senza sovrapporsi la riedizione scenica (è molto più di una rilettura) della “Commedia” poi divina, riedizione e ripresentazione nella sintassi profonda
del teatro in essa commedia sommersa ma non perduta, che ha visto nascere la prima cantica nella primavera del 2017 e la seconda vivere dalla primavera del 2019, entrambe in molte piazze e in molti luoghi in Italia e nel mondo. Attendendo ovviamente il “Paradiso” per la primavera del prossimo anno, quel 2021 che è anche il settecentesimo anno dalla morte del Fiorentino accolto e custodito a Ravenna, patria del loro Teatro delle Albe.
Un volume che intreccia, tra storie personali e collettive di una Italia in movimento e talora in caduta libera, la vita del padre di Marco, Vincenzo Martinelli, anzi i modi di una relazione padre figlio nata come percorso di crescita interiore, custodita e mai imposta, la storia cioè di un passaggio, di una maturazione da adolescenza ad adultità, con quella del “Sommo poeta” riportato alla realtà della sua vita, alla concretezza storica e universale delle sue scelte esistenziali, distillate, e non poteva essere altrimenti, nel magma ribollente e perenne della sua opera poetica.
Un riproporre cioè sé stesso e la sua vita come peripezia che ha come sfondo la scoperta di sé nella scoperta dell'altro, un riproporre soprattutto ad una generazione nuova che si riproduce, con quel racconto esistenziale e intimo una visione della politica come luogo dell'incontro e non della prevaricazione.
Un libro che corre veloce come il pensiero di Marco, che si sbilancia anche pericolosamente talvolta, uno scrivere dalla sintassi accorta ma insistente che non si ferma alle nostre rigidità pur continuamente inciampandoci.
Un buona lettura per chi conosce il teatro di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari e anche per chi non lo conosce, una narrazione talora, forse, un po' troppo pedagogica da rischiare qualche pesantezza, ma spesso anche commovente tentando di imprigionare nella parola un sentimento forte, che erutta di fronte alla morte e che non può essere risolto nella parola.
Una moderna ricerca, forse, di quell'Amore “che muove il sole e le altre stelle”, ispiratrice del loro recentissimo “Fedeli d'Amore” e insieme, come scrive Marco Martinelli, la rinnovata coscienza di una “mirabile visione che finisce dicendoci che non c'è più dire possibile”.