Edoardo Erba, drammaturgo e scrittore. Lo incontro, al modo oggi purtroppo consueto, per continuare ed approfondire il viaggio intrapreso nel teatro e nella cultura in genere, al tempo strano e ancora estraneo del “virus”. Con lui, da molti anni osservatore coerente di quel mondo, attentamente e curiosamente esplorato attraverso i suoi molti lavori che hanno occupato argomenti e suggestioni le più diverse, girovagando tra i palcoscenici di tutta Europa e oltre, cercheremo di andare al di là della contingenza, economica soprattutto, del momento per guardare, se si apre e come si apre, la nuova prospettiva psicologica, estetica e quindi artistica conseguente e che lui stesso definisce senza paradossi “interessante”. Una possibile elaborazione simbolica, una interpretazione rinnovata, perché, al fondo secondo Edoardo Erba, scrivere è un po' dare voce ai sogni, e nel sogno, insegna Schopenhauer, “l'intuizione della realtà presente è del tutto completa e minuziosa, mentre il campo della
nostra visuale è assai ristretto, in quanto tutto ciò che è assente e passato, anche se fittizio , non entra che scarsamente nella coscienza”.
MDP Innanzitutto vorrei che tu ci parlassi di come stai traghettando la contingenza improvvisa che ci occupa, quella del coronavirus, come cioè la stai affrontando nella pratica del tuo quotidiano di scrittore e drammaturgo.
EE Prima che cominciasse la quarantena io avevo appena finito, con un vero e proprio tour de force, tutti quei piccoli lavori che stavo facendo. E anche uno che poi tanto piccolo non era, poiché si trattava della riscrittura del Pluto. Comunque avevo completato tutto prima, e tra l'altro con una gran fretta, perché i committenti sembravano avere un'urgenza che adesso suona un po' ridicola. Così quando la quarantena è cominciata, mi sono trovato a non avere niente in corso. Per un mese non ho fatto nulla. Avevo l'occasione e il tempo di rivedere alcuni dei miei vecchi lavori, che per qualche motivo non avevo finito. Ma non l'ho fatto. Questi lavori, rileggendoli, non mi sono sembrati vecchi lavori, ma lavori vecchi. Perché paradossalmente l'epidemia ha avuto come primo risultato quello di rendere vecchia tutta l'attualità. L'ha fatto in un modo così potente che se per caso tu metti mano oggi a qualcosa di tuo non finito, subito ti accorgi che non va più bene, perché intorno tutto è cambiato, il lavoro non è più attuale, non è più ambientato nell'oggi. C'è stata una trasformazione così straordinaria e veloce che, credo, ci vorrà un po' prima che gli artisti riescano a metabolizzarla. L'unico che è riuscito a fare una cosa del genere è stato Picasso che ha concepito e dipinto Guernica praticamente in contemporanea a quell'evento dirompente, quasi dipingendo mentre le bombe cadevano. Ma ci vuole un genio di quella portata per trasformare subito un cambiamento così forte e improvviso in qualcosa di creativo.
MDP Stiamo vivendo tempi di emergenza in cui rischiamo di essere travolti dall'assenza di riferimenti coerenti, assenza che la chiusura e la solitudine che li accompagna rischiano di enfatizzare. Al di là degli aspetti economici che ci metteranno alla prova oltremodo, talora troppo, viviamo credo tempi in cui sembra impedita ogni elaborazione simbolica, quella che l'arte ed il teatro favorisce e ha sempre favorito. Quale è il tuo pensiero di artista ovvero la tua sensazione per così dire estetica al riguardo?
EE Da un punto di vista pratico quello che mi preoccupa di più è il dopo. Mi spiego: io sono un artista che vive di sale 'piene'. Ci sono anche artisti che vivono di sale 'vuote', io invece no. La sala piena è qualcosa che mette a contatto le persone, e che questo contatto sia oggi diventato così angosciante - si vive il vicino come un possibile portatore della malattia - è quanto di peggio poteva capitare. Io spero che si possa trovare una soluzione. Però non sarà una cosa breve e magari non si potrà tornare del tutto allo stato precedente, forse bisognerà farsi venire delle idee, non so, progettando nuove platee. Bisognerà fare un grande sforzo di fantasia, perché quando i teatri riapriranno, la gente non ci andrà per paura. Però lasciamo stare per un momento l'aspetto pratico e veniamo a quello che hai chiamato "elaborazione simbolica". Io penso al riguardo che il punto più interessante sia quello della morte, della percezione della morte, nel senso che - e questo è un pensiero che mi ha sempre accompagnato - nella nostra contemporaneità, la morte l'abbiamo espulsa. Quando qualcuno muore tutti si sorprendono, quasi che la morte sia un evento 'innaturale'. Siamo riusciti a sradicarla così in profondità che ci appare come un fatto imprevisto e disgraziato, mentre accompagna la vita, ne è segno. È stata talmente censurata che ritrovarcela davanti così bruscamente nel corso di questa pandemia, rende tutti fragili e ipocondriaci, anche quelli che ipocondriaci non sono. Io penso che, in frangenti di questo genere, bisogna essere molto prudenti, ma anche consapevoli di una verità lapalissiana: cioè che la vita è transitoria, e nessuno può assicurarci l'immortalità. Credo tra l'altro che le generazioni che ci hanno preceduto avessero molta più familiarità con questo concetto, perché c'erano le guerre, avevano le malattie incurabili, avevano una mortalità infantile impressionante. Per forza di cose la morte era più integrata nel pensiero collettivo. Per noi non è così, quindi ritrovarcela in ogni telegiornale non come un fatto eccezionale ma come un "numero" quotidiano, ha in sé qualcosa di benefico, visto che la realtà è sempre stata questa, era così anche prima, quando nessuno ci "dava i numeri". Solo che invece di essere evidente, era una realtà nascosta. La pandemia dunque fa emergere di nuovo, collettivamente, il pensiero che siamo tutti transitori. E che insieme a noi, sono transitori anche valori che ci eravamo convinti fossero assoluti, come ad esempio il Mercato. Improvvisamente non crediamo più che sia un meccanismo autonomo che ci sovrasta. Lo vediamo come una semplice convenzione, che esiste solo se gli diamo credito. E poi l'idea di nazione, di confine, che si rivela fasulla di fronte a un virus che appunto non conosce nazioni e confini. Quello che voglio dire è che uno degli effetti della pandemia è quello di relativizzare intere categorie mentali, come la divisione tra i paesi, il Mercato e i soldi come valore collettivamente prevalente. La comunità si ritrova un po' più sensibile e anche sanamente 'disoccupata'. Dicevo prima che ho corso con affanno per chiudere tutti i miei impegni per febbraio, seguendo urgenze che poi sono risultate inutili. Tutte queste scadenze erano finzioni, finzioni a cui tutti abbiamo creduto, per cui tutti abbiamo buttato inutilmente tempo ed energie. Invece di impiegarle per qualcosa di più utile e importante.
MDP In molte delle tue drammaturgie si assiste ad una sorta di sospensione, quasi una piegatura, del tempo che in un certo senso ricorda le atmosfere di questa Italia bloccata e chiusa in casa, quasi addormentata come in certe fiabe. È una impressione giusta a tuo avviso?
EE In effetti la "piegatura" - come la chiami tu - del tempo è qualcosa che caratterizza anche i miei lavori più recenti, come Utoya e Rosalyn. Poi ce ne sono altri in cui il tempo è dilatato e confuso, o addirittura ribaltato, come Deja vu o Senza Hitler. Ma le analogie con l'atmosfera che stiamo vivendo, non non si limitano alla "sospensione" del tempo. Soprattutto nelle prime opere io cercavo di costruire personaggi che man mano si rendevano conto che la loro situazione non era, o non era più, quella che credevano fosse. In questo Maratona di New York è paradigmatico. Oggi è appunto così: la situazione intorno a noi è improvvisamente cambiata, e come i personaggi di certe commedie, siamo chiamati a prenderne coscienza. Per definirci, tu usi la parola "addormentati". Io più che "addormentati" userei la parola "ingessati": abbiamo avuto un incidente, siamo ingessati e levato il gesso sappiamo che ci attenderà una riabilitazione che forse sarà molto lunga. Non sappiamo quanto, non ce lo può dire nessuno in questo momento. Se vediamo la Cina, che è qualche mese avanti a noi in questa esperienza, un po' ci spaventiamo, perché laggiù l'allarme non è ancora rientrato. La gente è ancora lì che gira con le mascherine e prende precauzioni temendo una seconda ondata di contagi. Si ha come la sensazione che finché non si troverà una cura, questa situazione possa diventare permanente.
MDP Molti intellettuali scrivono che è in gioco il nostro rapporto con la natura e con la scienza, quindi molto della nostra percezione della Società e del potere, anche dal punto di vista politico. I drammaturghi, secondo te, mentre ora sembrano un po' muti e come travolti dal blocco delle attività, che posto hanno o devono conquistarsi in questo dibattito?
EE Sono un appassionato lettore di libri di divulgazione scientifica. La scienza mi piace e mi stimola anche quando non la capisco fino in fondo. Mi tengo dunque abbastanza aggiornato, soprattutto sulle questioni inerenti la Fisica, materia che amo di più, ma anche la Biologia. Leggo molto di Ecologia, del rapporto devastante che la nostra civiltà ha sull'ambiente. Rifletto sul climate change, con un patema che mi accompagna ormai da anni, ma che difficilmente sono riuscito a trasformare in drammaturgia. Forse perché non ho mai trovato la metafora giusta. Un po' nel recente Effetto Venere (che deve ancora andare in scena), un po' forse in Buone Notizie, ma in concreto non ho mai trovato quell'immagine che esprimesse compiutamente quello che sento. Certamente - e non sono solo io a pensarlo - quello che non sono riusciti a fare Friday for future o Greenpeace, o il WWF con le loro campagne di sensibilizzazione, sembra stia riuscendo al Covid19. Vediamo animali che si riappropriano degli spazi urbani, c'è meno inquinamento, si produce meno spazzatura, insomma bruscamente sono successe molte di quelle cose che dovevano far parte della cosiddetta “decrescita felice” - un'idea che alcuni avevano predicato e molti avevano deriso - ma che in sostanza è l'unica prospettiva possibile per salvare la specie. In questo senso i drammaturghi potrebbero dare una mano. Si tratta infatti di immaginare una società differente, con valori differenti, di 'vedere' quella svolta che stiamo vivendo per cercare di pilotarla. Perché questa è una svolta che può portarci verso il peggio, certo, ma anche verso il meglio. E' compito nostro, di noi scrittori intendo, lavorare per indirizzarla, smettendola con la passione che abbiamo un po' tutti, per gli scenari distopici, ma cercando di produrre invece delle 'utopie'. Dobbiamo cercare di indirizzare la fantasia verso un futuro più intelligente, un futuro dove sia possibile fare un salto evolutivo. Cito un romanzo che ho appena letto, Il Colibrì, di Veronesi. Non mi è in verità piaciuto molto, se non per la parte finale che riguarda la creazione dell'uomo nuovo, per quella fuga fantastica e nient'affatto retorica che apre a un futuro migliore. Sono pagine importanti, di cui ringrazio l'autore.
MDP Io penso che l'arte, il teatro e la drammaturgia saranno essenziali per ripartire, anzi che sono essenziali già a partire da adesso, per elaborare gli eventi, comprenderli profondamente e così digerirli in modo appropriato. È già il momento di scrivere intorno a questi “tempi di pestilenza” oppure, come ho letto di altri, adesso è il momento di vivere e introiettare per poi scriverne drammaturgicamente?
EE L'autore italiano che si è dimostrato più sensibile e ricettivo rispetto alla cronaca è stato Stefano Massini, che è riuscito a trasformare quasi immediatamente (credo che il suo testo sia del 2010) un evento come il fallimento di Lehman Brothers, in un lavoro creativo importante, e anche di grande successo. Lui ha la capacità e la tempra per fare questo lavoro sull'attualità, aveva infatti scritto anche un testo sulla Politkovskaja, poco tempo dopo la sua morte. Anche adesso, partecipando ad una trasmissione televisiva, fa dei pezzi, un po' predicatori forse, che dimostrano tuttavia una capacità non comune di trasformare in "drammaturgia" gli eventi nel momento in cui accadono. Un tentativo abbastanza importante in questo senso è stato fatto anche da Pierattini e Cavosi con il loro Teatrogiornale, nei primi anni duemila. E da Paravidino col suo Genova 01. Da parte mia, so di essere più lento, perché ho bisogno di mettere un tempo tra me e gli avvenimenti. Ho bisogno in sostanza di digerire gli eventi per poi essere in grado di inventare storie che sono in un certo senso archetipiche. Per arrivare a questo esito artistico ho bisogno di profondità, ho bisogno di lasciarmi 'investire' dalle novità. Quindi non ho mai una reazione immediata, sono sempre un po' in ritardo sull'attualità, ma forse proprio per questo riesco ad anticipare il futuro. Ad esempio nel mio Venditori, un testo di venticinque anni fa che aveva vinto il premio Enrico Maria Salerno, c'era una visione anticipatoria. Un critico se n'era accorto e dopo un'edizione che non ebbe successo, mi consigliò di metterlo da parte, e di tirarlo fuori qualche decennio dopo. Infatti l'hanno riproposto non molto tempo fa in Germania e sembrava scritto per quella situazione, in quel momento lì. Questo per dire che, a volte, arrivando in ritardo sul presente si può arrivare in anticipo sul futuro, perché se tu ti lasci attraversare da una cosa, la fai cadere in profondità e poi cerchi di restituirla, vai a toccare una zona molto profonda, una zona che non conosci e si può rivelare profetica. Io pertanto non posso fare altro che rimanere fedele a me stesso, con tutto il rispetto e l'ammirazione per chi riesce a lavorare in altro modo.
MDP In un articolo pubblicato su “Repubblica” David Grossman ha scritto: “Quando l'epidemia finirà, non è da escludere che ci sia chi non vorrà tornare alla vita precedente. Chi, potendo, lascerà un posto di lavoro che per anni lo ha soffocato e oppresso. Chi deciderà di abbandonare la famiglia, di dire addio al coniuge, al partner. Di mettere al mondo un figlio o di non avere figli. Di fare coming out. Ci sarà chi comincerà a credere in Dio e chi smetterà di credere in lui” ecc. Sono cose nel complesso condivisibili, ma nel contempo mi viene anche da pensare che in fondo eventi come quelli odierni hanno sempre attraversato la vita e la storia degli esseri umani. E che anche prima lasciavamo il coniuge o cominciavamo a credere in Dio. Sei convinto anche tu che 'dopo' tutto o molto sarà cambiato, oppure che anche questa è una crisi come altre, che tu prima hai citato relativamente alla generazione dei nostri genitori? E, infine, tutto questo come inciderà, se inciderà, sulla tua attività, sulla tua scrittura?
EE Penso che quello che tu hai appena detto sia sostanzialmente giusto. Questi cambiamenti, queste trasformazioni, dal credere al non credere, dal lasciare un'amante per mettersi con una persona nuova, al decidere di fare un figlio o meno, sono cose che accadono comunque sempre. I grandi accadimenti fanno un po' da catalizzatori di determinate decisioni, ma niente di più. In generale piuttosto sono convinto che quanto dicevo prima intorno alla morte sia, ora, decisivo. Dobbiamo abbandonare l'idea della morte come "incidente di percorso", un'idea che era solo funzionale al commercio, al PIL, alla crescita. Ritornare a parlarne in termini più "naturali" può produrre un effetto importante e duraturo, utile a rendere più relativi e affrontabili problemi che sembravano insuperabili. Arrischio un'altra idea: forse ci verrà voglia di scrivere meno lavori di attualità e più lavori ambientati in una prospettiva storica, perché così potremo rivedere da un altro punto di vista quello che è accaduto. Faccio un esempio stupido: il 2 marzo ho fatto la presentazione del mio romanzo Ami a Roma, davanti a una platea calda e affettuosa. C'erano molti amici e alla fine ci siamo baciati tutti, avrò dato duecento baci. In un certo senso questa, adesso, a un mese di distanza, è già una cosa storica poiché non vedo nell'immediato un'altra platea come quella, in cui le persone si abbracciano e si baciano. Allora forse, attraversando il periodo che ci attende, ci verrà voglia di guardarci indietro, di pensare a momenti della storia, nostra e di altri, che ci sembravano meno significativi ma che, alla luce di quanto poi è successo, diventeranno pregni di significato. Sarà importante andare a prendere alcuni fotogrammi del passato, che avevamo scartato ma che rivisti diventeranno fonte di ispirazione. Penso ad esempio a Woodstock e a quel clima di abbracci, di amore libero che tu ricorderai, un clima già "storico" dopo l'epidemia dell'HIV ma che oggi, a maggior ragione, diventa quasi una fantasia, una magia.
MDP Anch'io in questi giorni ripensavo agli anni 60 e 70, alle tante manifestazioni di piazza di allora, e mi domandavo se sarà ancora possibile manifestare così, se e in quale forma sarà possibile cioè riprendere in mano la politica. Noi in fondo paghiamo nella nostra contemporaneità un deficit di filosofia e viviamo tutto molto in superficie. Forse anche per questo rifiutiamo l'idea della morte, che non è negata solo dalle persone semplici, anzi. La morte che dovrebbe invece rendere sapide le nostre vite, dando senso e confine.
EE Questo succede perché viviamo nella società dell'Ego. Tu hai citato gli anni 70 e in quegli anni non si poteva dire “io”, si doveva sempre dire “noi”, in quanto c'era questo grande senso della collettività e della condivisione. Poi gli anni 80 hanno portato l' "io", che da allora si è affermato ed è cresciuto in maniera smisurata. Abbiamo vissuto in una società di gente egoriferita, che faceva apparire e sparire il prossimo come fosse un ologramma da attivare a seconda del bisogno. Quindi ri-familiarizzare con l'idea della morte, della nostra morte, non di quella degli altri, vuol dire relativizzare quell'io smisurato, e con esso tante cose a cui ci sembrava di tenere moltissimo, sgretolando quegli impianti e quelle strutture collettive dentro cui eravamo prigionieri. Vuol dire forse imparare di nuovo l'altruismo come valore liberatorio, un valore che oggi medici e infermieri ci stanno pazientemente insegnando. E questo è un altro dei processi benefici dell'epidemia. Certo, nell'ambito di questa trasformazione, devi mettere in conto il tuo rischio individuale. Ma è così, non c'è altra strada.
MDP Anche per superare quel po' di retorica di troppo che segna i commenti che si fanno sul coronavirus, ho ripreso alcune mie letture, tra cui Schopenauer che, nei Parerga e Paralipomena, scrive che la verità di sé l'uomo la vive nei suoi sogni, essendo la realtà interferita dai rapporti sociali e storici. Quindi più di questi commenti, mi piacerebbe conoscere degli uomini i loro attuali sogni.
EE L'altra mattina alle cinque, mi sono svegliato mentre sognavo che un mio amico carissimo mi tossiva in faccia e mi infettava. Allora, mi sono detto, per fare sogni di questo genere preferisco stare sveglio. Scherzo. Ho fatto otto anni di analisi Jungiana, lavorando quasi solo sui sogni. Sono importanti ma sfuggenti. Raccontandoli inevitabilmente li alteriamo. Se potessimo entrare in essi davvero, sapremmo chi siamo noi e chi sono gli altri intorno a noi. Ma in fondo dar voce all'elusività dei sogni, è quello che si cerca di fare scrivendo.