“Un attimo fa era ancorata sulle cime della vita, e ora è lì per terra, morta”. L'occasione è la presentazione del suo ultimo lavoro, una “Pentesilea” di Heinrich Von Kleist, frutto di un laboratorio con gli studenti del corso di alta formazione che, ideato prima, è mutato, quasi metamorfizzandosi, per l'avvento della pandemia, così da diventare un coro di voci in uno spazio estetico man mano conquistato e consolidato. Uno spettacolo presentato in anteprima nazionale su Radio 3 all'interno del programma condotto da Laura Palmieri. Ma con Chiara Guidi non ci si può fermare ad un singolo evento, e così il nostro incontro si è trasformato in un momento di discussione sul senso contemporaneo del teatro. Per domandarci cioè se il teatro è ancora in grado di interrogarci e se noi siamo ancora capaci di interrogarlo. La sospensione di questi mesi sembra infatti, anziché indirizzarci al profondo, averci mostrato la via del consueto, del luogo comune che sfugge e a cui sfugge l'orizzonte, “per emulare nel presente ciò che si faceva prima”, come ci ha detto lei stessa, “come se il teatro, vista la precarietà del futuro non abbia più la stessa urgenza”. Si fa finta, mentre il bisogno vero è
trovare l'esistenza del teatro, il perché ancora lo facciamo. Emerge dunque l'esigenza di una riflessione, di cui questa conversazione vuole essere parte.
MDP: Chiara, cominciamo con la tua Pentesilea. Pentesilea è un mito arcaico ma molto attuale, profondissimo ed insieme liquido, pieno cioè di riflessi e di suggestioni diverse e anche contrastanti, che però affondano le loro radici fin alle origini dell'umanità come siamo abituati a conoscerla. È un testo aperto a molte interpretazioni che anch'io ho affrontato in un mio saggio. Quali sono gli elementi di modernità che ti hanno ispirato e hanno guidato il tuo approccio drammaturgico?
CG: Penso sia vero, riguardo alle molte possibili interpretazioni, che noi riusciamo a masticare e a mangiare solo una parte di un tutto, e quindi anche di un testo, e la tensione è proprio questa io credo, cioè abitare solo lo spazio che si divora. Quando affrontiamo il testo di un autore è come se mangiassimo quelle sue parole, ma con la consapevolezza di poter dare solo un morso lì e non anche un morso qui, quindi abitiamo solo quello che mastichiamo, quello che frequentiamo. Io in Pentesilea ho sentito fortissima innanzitutto una esigenza personale, che non riguarda però tanto il mondo della seduzione, dell'innamoramento o della promessa, o anche quello del riscatto rispetto alla regola che ti impedisce di uscire dal solco predeterminato della legge. Non è tanto dunque andare contro il parere della Sacerdotessa o mettere in pericolo tutti in nome di una questione personale, che peraltro la madre di Pentesilea, Otrera, aveva vaticinato. L'aveva predestinata infatti, aveva previsto l'arrivo e l'incontro con Achille. Quello che mi interessa è la metafora che questo testo produce dentro di me, in quanto rispecchia il desiderio di abitare le cose. Quando abiti le cose, non le usi solo cioè, non hai un semplice toccare esterno, ma piuttosto una tensione all'interno, per forza devi produrre delle ferite, devi lacerare, devi creare dei tagli, devi entrare dentro al corpo che desideri conoscere. Non usare quindi le cose in maniera distaccata, non nominarle senza fare esperienza della singola cosa che nomini, ma realizzare il più possibile una vicinanza. Mi sembrava questa la questione importante, anche al di là dell'esercizio pratico sulla voce, di cosa è la recitazione per un attore, sostanzialmente l'avvicinarci con il corpo, con il pensiero del corpo dunque, a ciò verso cui sentiamo attrazione, anche irrazionale. Perché noi sappiamo bene che i gesti che compiamo e le parole che diciamo, in quanto corpo e parola sono tutt'uno, spesso fuggono al nostro controllo.
MDP: In Von Kleist, la cui Pentesilea hai rielaborato in sorta di coro di voci, il mito è anche occasione, per lui e per noi, di indagare sulla identità profonda e sul genere, anzi sulle identità e sui generi. Come hai letto, in questo contesto, la questione del femminile nei suoi riferimenti storici ma soprattutto simbolici?
CG: Il sovvertimento del mito che Von Kleist pone, è cioè il fatto che Pentesilea uccide Achille, è innanzitutto il sovvertimento che vive prima nelle singole figure di Pentesilea e di Achille, in quanto nella sua visione Achille è la femmina e Pentesilea è l'uomo, quasi che l'unione dei due corpi generasse poi una unità più ampia della visione stessa, che precede entrambi. A partire da Achille con quell'aspetto femminino, con quella voce da adolescente e anche con quella furbizia, per cui dice vado da lei senza armi, la seduco, mi avvicino, mi abbandono e mi fido di lei. In fondo è una strategia molto femminile quella di Achille. Al contrario Pentesilea ha una reazione psichica molto maschile, per cui dice “ho perduto e non posso più vivere”, avendo quella specie di orgoglio più maschile, a mio parere. Quando si sente perduta, perché caduta, esprime dunque un atteggiamento maschile, e anche Protoe, proprio per questo, furbescamente suggerisce ad Achille di non dirle quello che lei ha fatto. Quindi io non sento il bisogno di mettere in evidenza come qui il sesso femminile raggiunga una autonomia di pensiero inusuale rispetto alla tradizione, rappresentata ad esempio dalla sacerdotessa. Non mi interessa mettere l'accento su tutto questo, mi interessa molto di più quello che Deleuze ha detto rispetto ad Achab e alla balena, cioè l'irrefrenabile, l'inestricabile necessità di dovere a tutti i costi andare dentro ciò verso cui il corpo sente un richiamo.
MDP: Quello che dici è molto interessante e dimostra, una volta di più anche in questo, come Von Kleist avesse una posizione avanti cent'anni rispetto alla sua contemporaneità, tanto che addirittura Goethe non lo capisce, in fondo, quando lo definisce “creatore di un teatro ancora di là da venire”. Ha avuto intuizioni anticipatrici magari, come capita agli artisti che infatti amano il confronto con lo studioso, non pienamente strutturate a livello di pensiero. Nella sua opera però vi è, a mio avviso, la tragica consapevolezza estetica della impossibilità di fusione, di una unione piena tra maschile e femminile ma anche tra individuo e individuo, per cui preferisco parlare di differenze piuttosto che di genere. Una fusione, come sapienzialmente narrato nei miti su Eros nel Simposio platonico, invece profondamente desiderata, come hai detto anche tu, a livello fisico, a livello di viscere, ma resa impossibile dai cliché e dalle maschere imposte dalla Società, che interferiscono pesantemente con questo movimento e con questa energia. Per questo, per la sua complessità io penso che Pentesilea sia una drammaturgia intimidatoria, che fa paura, e per questo poco portata in scena anche ai nostri tempi.
CG: Infatti, non credi che questo desiderio di fusione sia possibile, ed uso una parola che però non mi soddisfa pienamente, sia possibile dicevo solo per un “sacrificio”? La fusione è possibile, io credo, solo così, come infatti accade nella Pentesilea. E anche, se vuoi e la cosa mi colpisce molto, è quasi una potenza adamitica dell'umano. In questi momenti, non so perché, riflettevo sulla Genesi biblica e su come, in essa, Dio crea la donna perché l'uomo si sente solo. In realtà io ho l'impressione che Dio crei così la prima società umana, crei la prima città, fatta cioè di uomini e di donne, fatta di generi diversi. Io credo infatti che ogni genere sia singolarmente diverso, sia sostanzialmente diverso, a livello di sensibilità, ma anche a livello di potenzialità, ad esempio materna, per questa capacità materna propria della donna. Appunto come scriveva Esiodo a proposito della donna, cioè io posso generare figli che crescendo diventano guerrieri, ma fino ad allora sono femminili. C'è dunque, nel profondo, questa duplice valenza, in virtù della quale, secondo me, è sbagliato vedere tutto sotto la luce del riscatto femminile sull'abitudine maschile.
MDP: Anch'io ne sono convinta. Sono convinta che sia una atteggiamento un po' forzato e anche perdente per entrambi i generi fermarsi a quella sola dimensione, e che bisogna andare oltre il semplice confronto di genere, in quanto la questione appare ed è molto più complessa e strutturale. Una visione di questo genere ci allontana anziché avvicinarci. Ma per tornare a noi, l'evoluzione del progetto “Pentesilea”, che è anche un progetto di studio con giovani attori e che va dunque oltre il solo esito scenico, si è scontrato con le restrizioni imposte dalla pandemia. Come hai affrontato il problema della “non presenza” e dell'uso degli strumenti elettronici a distanza, rispetto soprattutto alla gestione della voce, o meglio delle voci che andavano a comporre il tuo testo scenico?
CG: Questa infatti è la grande questione. Il progetto di Pentesilea, come medium, come oggetto, ci da l'occasione per una riflessione su cosa è l'interpretazione teatrale. La voce dell'attore interpreta delle parole e queste parole escono dal ventre stesso dell'attore, dalle viscere, e questo è il primo livello di espressione e lì l'attore decide, dentro le sue viscere, ove avviene il primo riconoscimento. Quindi ciò che esce all'esterno attraverso questa soglia della bocca, è in qualche modo l'eco di qualcosa che è in quelle viscere. Queste viscere appartengono ad ognuno di noi in maniera distinta e diversificata, dunque non si può in questo senso insegnare a interpretare. Posso dare concetti, elaborare delle linee guida, ma alla fine sei tu che interpreti, sei tu da solo, con le tue viscere, di fronte al corpo che ami. Era questo che mi interessava perché è questo che, secondo me, fa Pentesilea. Pentesilea da sola, di fronte a un uomo nudo, spogliato, a un corpo che l'attrae al punto da diventare l'eccesso, l'eccesso incontenibile. C'è, a questo proposito, un racconto di Checov “il vetturino”, che racconta appunto di un vetturino cui è morto il figlio. Lui deve riprendere a lavorare e vorrebbe raccontare a tutti quello che gli è successo, ma nessuno ha voglia di ascoltarlo. Così ad un certo punto dice che dentro di lui quel dolore è come una noce, una noce però che, se esce all'esterno, allora invaderà il mondo intero. Secondo me questa considerazione vale anche per Pentesilea, nel senso che è un linguaggio dell'intimo che quando, come un cane e qui c'è anche una vicinanza con il mondo animale, va a lacerare, allora, questa intimità, dilaga, e diventa la presenza di Pentesilea ancora oggi. In base a queste considerazioni noi ci siamo trovati delle voci che non potevamo accettare. Attraverso internet, al di là delle occasionali disconnessioni, le voci infatti sono comunque elettriche non esatte, ma soprattutto queste voci dei ragazzi provenivano da venticinque case diverse e quindi avevano spazializzazioni della voce diverse l'una dall'altra. Allora ho ridotto il testo in frammenti che ho fatto esplodere dentro le case di questi ragazzi e poi ho tolto i personaggi, tolto Ulisse, lasciando solo una eco di Protoe, così identificando di più Pentesilea e Achille, ma senza troppa espansione di interpretazione tipica di queste due figure. Poi ho raccolto tutte queste voci e così alla fine la mia Pentesilea è diventata una ricucitura, un montaggio, un montaggio di presenze. È come se io avessi preso il corpo esploso di Achille e, come interpretazione registica, l'avessi ricostruito, l'avessi riformato. Infatti era esploso come erano esplose le voci all'interno di quel medium, non essendoci sintonia. Ho dovuto, dunque, fare una grande lavoro di armonizzazione, di montaggio delle singole voci, senza correggere i riverberi che erano naturali e che ho lasciato, così che erano voci per così dire sporche. Per quanto riguarda invece i rumori di contesto, infine, ho usato registrazioni che però ho fatto sempre passare attraverso Skype. Questo spazio on line, questa voragine elettroacustica, era infatti il nostro spazio di confronto, all'interno del quale dovevamo capirci, il nostro spazio di battaglia, vicino alle mura di Troia, vicino cioè ad una guerra molto più ampia che si svolgeva di fianco a noi. Sia io che loro abbiamo fatto molta fatica, è stato faticoso ma anche intenso. Del resto è stato interessante anche in questo, come Pentesilea o anche Achab in una situazione particolare della loro esistenza mettono sotto-sopra le regole delle amazzoni o quelle dei balenieri, così la stessa cosa succedeva a noi essendo in quella nuova situazione messa sotto-sopra la nostra abitudine ad ascoltare voci che non potevano essere perfette, perché non era quello il tempo dell'ascolto di prima. Ci veniva richiesto un altro tipo di ascolto ed essere duttili in questo, secondo me, è una scoperta interessante per il teatro.
MDP: In ogni modo io percepisco anche nella scelta di Von Kleist una immersione tutta all'interno, nella profondità, in ciascun ragazzo, nelle viscere, e quando si è nell'oscurità la voce è comunque spuria, non può essere purissima. Ora lo spettacolo è uscito in prima nazionale su Radio 3 all'interno del programma dedicato al teatro di Laura Palmieri, ove abbiamo potuto ascoltarne due brani piuttosto lunghi. A questo proposito intendi riproporlo, e in che modo, per la scena? Quale è il vostro progetto?
CG: Guarda, questa Pentesilea ha avuto questa sua condizione, e anche la sua coerenza se la inseriamo all'interno del corso di Alta Formazione. Nel contesto dunque di una scuola. A me interesserebbe proseguire e farne uno spettacolo dal vivo ovviamente, ma comunque la cosa che più mi interessa è la composizione delle voci, questa ricostruzione a posteriori. Dunque o lo ripeto on line, se le condizioni ritornano tragiche come in passato, oppure diventa uno spettacolo con persone che per una settimana lavorano con me, ed insieme poi frantumiamo questo testo. Al riguardo è molto interessante lo stile di Kleist, che già si sposta continuamente. A volte è diderottiano, a volte è stanislawskiano, ha uno stile cioè in perenne movimento, sembrando riproporre gli spasmi logici e psichici di Achille e di Pentesilea. È insieme oggettivo, freddo, passionale, razionale, distaccato, e questa cosa mi interessa, soprattutto se applicata alle voci, a voci che non conosco, per cui raccolgo questi corpi esplosi e ricompongo un corpo. Il fatto fondamentale è stato, per me, dire ai ragazzi: guardate che l'attore con la sua voce, con l'interpretazione, compie un gesto: la composizione. L'attore con la propria voce compone, è compositore.
MDP: Se l'attore è soprattutto un corpo che si libera sulla e attraverso la scena, disvelandosi, quale è secondo te il rapporto tra testo letterario e voce recitante, cioè tra parola scritta e parola detta e non solo a teatro?
CG: La parola scritta, innanzitutto, non è la stessa parola che vive sul palcoscenico, nel senso che diventa un punto di partenza, sicuramente, oppure anche un momento scoperto solo alla seconda o terza battuta. In sostanza scrittura letteraria e teatro sono due mondi separati, ma che si cercano con una forma che non è più né teatro né letteratura, ma è in base all'azione. È l'azione che modifica sia il teatro che la letteratura. Che cosa sia il teatro noi lo capiamo bene se guardiamo gli occhi di un bambino mentre ascolta il racconto di una fiaba. La fiaba mentre è detta da chi la sta raccontando deve “camminare” davanti a lui. Dunque questa azione profonda del testo in cammino, del testo che si muove, è la prima azione del teatro. E perché questo avvenga occorre una partitura. Ciò non significa la fedeltà al testo, chiaramente c'è una profonda fedeltà al testo, ma è una fedeltà particolare, è la stessa fedeltà che Litz praticava con i Sonetti del Petrarca. Lui identifica il sonetto 45 ad esempio, ma se io dovessi dire il sonetto 45 non lo farei attraverso quelle note del pianoforte. Questo è interessante, questa continua manifestazione che sospende per un po' il nostro bisogno di vedere e di capire subito. Da questo discende anche una fiducia dovuta nello sguardo e nelle orecchie del pubblico.
MDP: Tu hai detto che il problema della nostra epoca è soprattutto quello della sempre maggiore distanza tra il nome e l'oggetto nominato, come del resto aveva cominciato a scrivere già Walter Benjamin, ripreso poi da Edoardo Sanguineti. Secondo te il teatro è il luogo in cui questa distanza può essere, se non colmata, almeno ridotta?
CG: Sì, perché nel teatro è possibile la pausa come elemento compositivo. Io posso fermarmi su una parola, ed è per questo che all'inizio della registrazione della Pentesilea emergono due parole: Achille - Pentesilea. Questi due nomi separati fanno partire una altalena, un movimento oscillatorio, e questo a teatro è possibile, poiché c'è un tempo come costruzione. Un tempo del vuoto, dell'attesa, ovvero se preferisci della densità che la parola lascia, che chiede allo spettatore di entrare dentro a questa parola. Il problema è se questa parola consente a qualcuno di entrare, a qualcuno che conosce Achille e Pentesilea, perché mi è capitato all'interno di un corso di teatro per adolescenti, di proporre Edipo, ma nessuno conosceva Edipo. In questo caso devi fare una alfabetizzazione precedente e questo comincia ad essere una complicazione in questo nostro tempo. La riconoscibilità culturale cioè, e con essa anche la riconoscibilità della parola. Forse per noi oggi la prima cosa da fare è cercare le parole, in reciprocità.
MDP: Io credo che il problema della riconoscibilità sia un problema più generale, ben descritto in Benjamin con la metafora della caduta dalla parola che dava i nomi alle cose, alla molteplicità delle lingue e fino all'indistinto della ciarla. D'altra parte io sono convinta che nel teatro si può accedere ad una forma di conoscenza più immediata, sapienziale, che non necessita di un lungo processo di acculturazione. Lo dimostra il teatro greco che coinvolgeva tutti. In questo senso, una volta entrato in questo cerchio magico, anche in chi non conosce Edipo qualcosa di Edipo entra in lui, poiché come hai detto tu ciascuno mangia qualcosa del testo, ciò che può o anche, secondo Sanguineti, ciò che sa e merita.
CG: Sono d'accordo e proprio in relazione all'esperienza del teatro antico, ricordo una bellissima frase di Gorgia, credo riportata da Tacito: “è più sapiente colui che si lascia ingannare di chi inganna”. Un frase molto bella che dice dell'inganno come via della conoscenza, la immaginazione come capacità di essere falsi e veri fino in fondo. Prova però ad immaginarti oggi la scuola, e anche la nostra cultura. La nostra cultura, lo vediamo soprattutto dopo questo lungo periodo di chiusura, ha la tendenza a proporre l'intrattenimento o a fornire contenuti in maniera didascalica. È come se non ci fosse più la possibilità di una fatica della conoscenza, laddove senti anche il divertimento. In questo senso oggi il teatro appare un po' démodé perché implica una fatica. Guarda io lo dico da vari punti di vista in quanto ho molto praticato anche il teatro per l'infanzia. Ho fatto anche un Edipo per bambini, oltre a un “Edipo esercizio di memoria per quattro voci femminili”. L'ho fatto in diverse situazioni perché credo che un testo debba essere fattibile più volte da un artista, perché lo manda in momenti e punti diversi. Il teatro per l'infanzia è un genere che è monopolizzato da certi luoghi per l'infanzia, quando, al contrario, il teatro per l'infanzia è teatro per tutti. Perché non fai Edipo per bambini, o Alcesti per bambini, come mi è capitato, o Macbeth per bambini puerilizzando. Da una parte il teatro per l'infanzia oggi è, infatti, troppo puerile e annoia gli adulti che devono fare uno sforzo per portare i bambini, dall'altra se è troppo serio lo è troppo per i bambini e non sufficientemente per gli adulti, in quanto si cerca una formula di teatro che possa in qualche modo intrattenere e insieme far pensare secondo le linee di pensiero che vuoi vengano pensate. È quello che dice Marie Albes: “non vedere quello che pensi di vedere”, ma fermati di fronte a qualcosa e cerca di percepire quello che sentono le viscere del tuo corpo, non essere prigioniero del cliché della lettura. Giustamente poco fa dicevi che è necessario il confronto critico con lo studioso, perché appunto studia e va oltre. È profondamente complessa la questione, e non è riconducibile a due o tre stratagemmi del pensiero. È stratificato, è anche contraddittorio il pensiero, non è mai finito. Alla luce di tutto questo penso che, mai come in questo momento, il teatro debba ritrovare la domanda: “perché vado a teatro?”, “cosa cerco nel teatro?” oppure “quale è la domanda che il teatro può accogliere?”. In passato erano le guerre, i funerali, era un'opera di memoria del lutto, era il lutto. Può oggi il teatro ricollocare queste domande, ma soprattutto vogliamo riaprire un discorso viscerale sull'esistenza, che ci avvicina alle cose quando le nominiamo, perché quelle cose le tocchiamo e i nomi li portiamo come necessità. Come fanno i bambini che “rinominano” le cose che vedono, per necessità, poiché le devono chiedere.
MDL: Più in generale la tua riflessione artistica si è sviluppata a partire dal corpo, concentrandosi in questo ambito soprattutto sulla voce come organo autonomo e sulla parola come materia. In questo percorso, come dicevi prima, hai riscoperto anche il mondo dell'espressione infantile. A che punto è la tua ricerca estetica su questo e non solo?
CG: Io ho come l'intuizione, ma che è stata creata dall'esperienza, di avere bisogno dei bambini per dire delle cose agli adulti. C'è più calore e quindi più disponibilità ad accogliere un pensiero complesso e profondo nei bambini, mentre c'è più timore ad accogliere questo pensiero complesso negli adulti. Ti faccio un esempio. Ho fatto uno spettacolo intitolato “le fiabe giapponesi”, impostato sull'idea di vuoto e nulla. C'è una scatola vuota in scena, con un profumo dentro, e la domanda è che forma ha questo vuoto. È una bella domanda perché questa scatola ha una forma e può contenere solo determinate cose, e allora ci si chiede “che forma ha questo vuoto?”. Allora ho chiesto ai bambini, in un dialogo tra palco e platea inserito in una drammaturgia, la differenza tra vuoto e nulla. Di fronte all'espressione dei genitori o degli insegnanti, cui sembrava troppo complicato il quesito, sono emerse dai bambini delle valutazioni che al contrario mi hanno toccato profondamente. Un bambino ha detto: “il vuoto è la mia stanza senza di me, e il nulla è la mia stanza senza il perimetro”. Un altro bambino ha detto: “il vuoto è il deserto e il nulla è il deserto senza la sabbia”. Ho come la sensazione che nei bambini possiamo trovare l'origine, la forza originaria dell'arte, perché l'arte va a toccare, cioè dà forma a ciò che non si vede, e continua a non farlo vedere, così da investire di responsabilità lo sguardo di chi guarda. È per questo, come dicevi prima, è un testo che all'infinito puoi continuare a leggere e a mettere in scena. Ecco perché di un testo io a volte faccio anche cinque rappresentazioni in contesti tutti diversi, essendo anche una prassi. Quindi i bambini con la loro capacità di gioco e di trasformazione, per cui una sedia riesce a diventare un cavallo, anzi è proprio per il suo diventare un cavallo che la sedia diventa ancora più sedia. Alla luce di questo fatto, l'arte è quella rivelazione necessaria che il peso della realtà esige. Quindi l'arte, soprattutto se rivolta ad un pubblico infantile, mi da la possibilità di toccare, attraverso i bambini, senza fare nulla, quella infanzia del teatro che ricolloca le domande sulla vita della messa in scena.