Quando c'è 'un giorno dopo' il giorno della fine del mondo. È il paradosso che guida questa drammaturgia, tra suspence, noir e distopici orizzonti e che dunque, sintatticamente, ribalta uno scenario piuttosto frequentato tra cinema e teatro, aprendo invece la strada ad una riflessione interessante e diversa, una riflessione non sul durante ma bensì sul dopo, un dopo che ripete e si ripete. Dunque la domanda consueta in questi casi (“cosa faresti se sapessi che il mondo sta per finire?”) trascina sulla scena una narrazione invece inconsueta, che riguarda la nostra condizione esistenziale, ma anche la dimensione se non gli esiti dei legami reciproci, e, politicamente e sociologicamente pensando, l'organizzazione dei rapporti di forza e di potere nella nostra società contemporanea. Naturalmente e giustamente non può offrire risposte, se non quella che ciò che conta è la domanda stessa e la profondità con cui intendiamo, ciascuno e tutti, porla. Una drammaturgia, peraltro, che suo malgrado si offre anche come metafora di una sensazione vissuta, anche con disagio, nei giorni della pandemia, divenuta a sua volta metafora di una civiltà che sembriamo improvvisamente non comprendere più
pur non potendo rinunciarvi, offrendo un linguaggio per parlarne raccontando d'altro. La scrittura di Philipp Lhole, profonda e stratificata, disillusa ma insieme appassionata, è fatta quasi esplodere sulla scena, fino a raddoppiarsi rispecchiandosi in se stessa, grazie ad una regia che sa con sapienza contaminare i linguaggi della modernità, tra la presenza fisica e la virtualità dello schermo che raccoglie ed enfatizza i movimenti narrativi, mentre la musica anche dal vivo, una vera e propria colonna sonora che partecipa della complessiva significazione, ci trascina man mano nel suo stesso vortice.
Colpisce in particolare, nell'ottima revisione della dramaturg di compagnia. la capacità di leggere i diversi piani drammaturgici, l'uno nell'altro, l'aspetto esistenziale in quello politico, l'aspetto psicologico in quello sociologico, in fondo “il privato nel politico” e viceversa, si sarebbe detto un tempo non lontano.
Ciascuno di questi piani, inoltre, sollecita quasi una sintassi diversa, tra ironia, grottesco, angoscia e anche comicità, sintassi amalgamate con coerenza dalla scrittura scenica predisposta per la rappresentazione.
Un ottima prova che conferma da una parte la capacità della migliore drammaturgia contemporanea di intercettare sensazioni, sentimenti ed atteggiamenti altrimenti dispersi, e dall'altra il desiderio di molta parte del pubblico più giovane di potersi finalmente leggere sulla scena. Una fame di teatro purtroppo spesso disattesa soprattutto nei circuiti più istituzionali.
“Collasso”, nella buona traduzione di Clelia Notarbartolo, è uno spettacolo della compagnia “Il mulino di Amleto”, prodotto da TPE - Teatro Piemonte Europa, e da Teatro Stabile di Torino - Teatro Nazionale che stanno dedicando un meritevole interesse alla drammaturgia scritta da autori contemporanei.
Una messa in scena efficace e ben recitata, con Roberta Calia (Roberta Shütz), Yuri D'Agostino (Yuri Breuer), Barbara Mazzi (Barbara Becker), Raffaele Musella (Raffaele Becker), Angelo Maria Tronca (Angelo Seeger) e Gianmaria Ferrario al contrabbasso, pedaliera, distorsioni e effetti sonori. Regia Marco Lorenzi, assistente alla regia Emily Tartamelli, dramaturg Thea Dellavalle. Musiche composte ed eseguite dal vivo, come detto, da Gianmaria Ferrario. Visual concept e video Eleonora Diana, sound designer , Giorgio Tedesco, luci Link-Boy (Eleonora Diana & Giorgio Tedesco).
Visto al Teatro Carignano di Torino il 29 luglio all'interno della Rassegna “Summer Plays”. Molti giovani in sala e molti applausi.
Foto Andrea Macchia