La trama sottile e fragile di una amicizia maschile, sempre sul punto di rompersi per poi forse ricomporsi, tradotta, anzi percorsa dalla parola drammaturgica, attenta a non perderne le sfumature quasi a rintracciare un senso che vada oltre la contingenza o la memoria, pur così psicologicamente ed esistenzialmente condivisa. Tutto ciò è la drammaturgia non più recentissima (è stata scritta nel 1994) ma straordinariamente attuale di Yasmina Reza, autrice francese con radici sparse tra il medio-oriente e il centro Europa, forse la sua più tradotta e rappresentata in tutti i palcoscenici di Europa. Colpisce in particolare la qualità, artistica e narrativa, di questo sguardo femminile sul mondo intimo di tre uomini e delle loro relazioni, uno sguardo paradossalmente acuto che sa rendere quel miscuglio di complicità e conflittualità spesso dimenticato per una consueta visione a tutto tondo, un po' hollywoodiana, delle amicizie al maschile e invece riservato alla consuetudine di quelle al femminile. Una
donna che scrive di uomini e ne svela debolezze e contraddizioni. Tre amici di vecchia data, tre dislivelli sociali, culturali e psicologici stranamente intrecciati, ed un quadro, bianco, acquistato per molti soldi da uno di loro.
Quella superficie bianca diventa così il foglio su cui i tre proiettano e scrivono le loro diffidenze e difficoltà reciproche, in uno scatenamento progressivo di ripicche e vendette che trascinano un non detto accumulato nel tempo.
Una narrazione scenica semplice e insieme crudele, a livello della migliore drammaturgia europea da Bernhard alla Jelinek, solo attenuata dalla scelta di un linguaggio più vicino alla commedia ironica che al grottesco tragico di quelli.
Alla fine tutto quel dolore si scarica in un innocuo disegno a pennarello sulla tela bianca, striata di fantasie tra il candido e il grigio, un disegno poi accuratamente pulito a ripristinare un equilibrio che sembrava perduto per sempre.
Quel quadro bianco, o striato che si voglia, è dunque il quarto protagonista della pièce, più delle compagne dei tre che rimangono all'orizzonte, un protagonista capace di dipanare l'intrico di quella relazione tridua e che richiama, come suggerito dalla presenza alla presentazione del lavoro di una critica d'arte, al significato attuale dell'arte al di là della sua mercificazione, dentro le fragili relazioni umane. Argomento certamente complesso che meriterebbe più spazio e relativamente al quale torna alla mente quanto scriveva Luciano Nanni, filosofo e pittore, per il quale oggi è arte ciò che come tale è indicato da una comunità che lo accoglie e che ne assume la responsabilità.
Un bello spettacolo cui la regia di Emanuele Conte, che ha dovuto tenere conto delle limitazioni del periodo ma è riuscita a ribaltarle in opportunità, ha potuto offrire il giusto spazio per esprimersi e andare al cuore del pubblico, con movimenti appropriati e con quella tela bianca che diventa specchio in cui le ombre colorate dei protagonisti si accavallano e confliggono.
Bravi i tre protagonisti, dell'interessante gruppo di Generazione Disagio, qui ad una prova di qualità che ne attesta la maturazione anche nel rendersi docili alla regia.
Una produzione Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse che apre questa prima parte della loro difficile stagione “covid”.
Di Yasmina Reza nella traduzione di Federica e Lorenza Di Lella. Scene e regia di Emanuele Conte, con Luca Mammoli, Enrico Pittaluga e Graziano Siressi. Costumi di Daniela De Blasio, luci di Matteo Selis.
Alla sala Campana dal 14 al 25 Ottobre. Buono l'afflusso e ottima la risposta con molti applausi e chiamate.
Foto Valentina Mancinelli