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Glielo aveva detto tante volte sua madre Ada, dall’alto della sua esperienza e saggezza e con tutto il calore dell’amore materno: Alessia tu, col tuo carattere, finirai per rovinarti, lo vuoi capire? Lascia il teatro, gli annessi e connessi, in fondo parli perfettamente tre lingue, a partire dal francese; scrivi benissimo, hai una tua cultura ben superiore a quella media dei tuoi coetanei! Vedrai che con un po’ di pazienza lo troverai un buon impiego, poi, superata questa crisi che sembra immedicabile, vedrai il da farsi, e chissà, le scene ti riaccoglieranno in serenità ed equilibrio. Certo che se continui così tu finirai in manicomio, figlia mia!...
Sarà la disoccupazione coatta da pandemia, sarà l’eterna irrisolvibile crisi del teatro e delle arti dal vivo, saranno le delusioni esistenziali, ma Alessia è sempre più preda di un atroce pessimismo, e ormai ritiene che la battaglia per avere ancora  teatri in vita per la loro poesia, per il loro essere attraenti specie per le giovani generazioni di spettatori, sia giunta ad un limite, forse alla sconfitta finale.
Come chiunque abbia esaurito le sue energie psicofisiche (una volta si sarebbe detto “esaurimento nervoso”), Alessia mangia come un uccellino e soprattutto dorme a sprazzi, pensa e ripensa, a volte prende carta e penna, accende il paralume del comodino e prende appunti, come se fossero già un prodromo del suo futuro testamento artistico…
Alessia si chiede, nella penombra silenziosa della sua camera da letto, “Cos’è che spinge una donna di teatro, un’attrice come lei,  ad affaticarsi per qualcosa che, oltre a tutte le altre limitazioni dello spettacolo, è destinato a sparire?” E pensa:” Non basta il successo, sia di pubblico che di critica!” Alessia per una frazione di secondo s’addormenta per poi riprendere a ruminare i suoi pensieri: “Ci dev’essere qualcos’altro. C’è oggettivamente” riflette “anche se non tutti ne hanno consapevolezza, o lo mettono in cima alle proprie aspirazioni, come una stella polare. Si, si, c’è, eccome.  L’uomo e la donna di teatro cercano di creare attraverso lo spettacolo una vita “altra”, addirittura superiore alla vita-vita. Come per ogni altra attività artistica, azione inventiva, senso di poesia; deve essere così”, e Alessia riprende sonno, forse rappacificata per quel tanto che basta per concedersi una pausa onirica…
Alessia prende il suo taccuino e inizia a scrivere:
Faceva teatro, per far della sua vita \ un’opera d’arte intimamente conclusa: \ il suo training  includeva fin le punta delle dita, \ e ogni sua interior ed esterior energia era profusa. \ Traeva forza ed assoluta concentrazione \ svuotando la sua mente da pensieri e turbamenti: \ riusciva con precisione controllata in qualsiasi Azione, \ sentendosi sempre più al centro degli Elementi. \ Autoconsapevolezza, connessioni estreme, awareness \ erano le sue mète ambiziose, per una vera dimensione yoga; \ spenta aveva in sé ogni ansia, libera si sentiva da oscure pressioni, \ danzava nuotando nella densità dell’aria senza squilibrante stress, \ il suo tronco forte non cedeva alla spinta di ogni possibile foga: \ fino a che pensò di rinunciare alla scena per vivere così, senz’ambizioni! \ Le diedero della matta, della fallita. Fu dimenticata, s’impoverì, \  finì per non mangiare più! Recitava una specie di mantra sottovoce: \ “Solo io ho vissuto di più… ho vissuto di più… ho vissuto di più…”.
Alessia, con due grosse lacrime che affiorano dalle ciglia, chiude il taccuino, e si copre fino al collo stendendosi sul letto.
Alessia sogna, e ascolta un signore anziano, professorale, con la barba bianca, gli occhiali piccoli, una figura che conosce bene: “L’attor fino è semplicemente l’attore di  teatro… Distinguo l’attore di  teatro dall’attore che sa stare a teatro. Per molto tempo, una distinzione siffatta sarebbe stata pura lana caprina. Dalla fine del Novecento è essenziale. Eppure spesso trascurata.”…
Alessia spolvera il comò, prende una boccetta di profumo che non usava da molto tempo, lo annusa e, con effetto proustiano, le si spalanca nella mente il ricordo di un’attrice da lei molto amata, la Valeria Moriconi, che usava, va da sé, quella stessa marca di parfume francese.
Recitava, Valeria, nel ruolo della signora Ignazia, del pirandelliano Questa sera si recita a soggetto, regia di Massimo Castri, anno 2003. Alessia era seduta, più o meno, sulla prima poltroncina di una fila a metà platea del Teatro Argentina di Roma, e lei, Valeria Moriconi, forse già malata seriamente, agendo fuori scena, le passò accanto: rivede il suo passaggio nella sua mente au ralenti.
Eccola, la sento alle mie spalle, scendere per il lieve declivio della platea, lentamente: ne percepisco il movimento come fosse volo di farfalla! La sua voce mi giunge come disincarnata, come navigasse nell’aria tesa del teatro! Eppure lei c’è, con tutto il suo corpo, e sta quasi arrivando alla mia altezza: prego Dioniso di farla fermare accanto a me, ed infatti lei si ferma, e quasi mi guarda negli occhi, uno sguardo che sostengo solo per un attimo: la percepisco come un’essenza, né fantasma, né personaggio, né Valeria: come un’esclusiva abitante di quello spazio, dove ogni identità perde i suoi confini. Un po’ persona reale, un po’ personaggio, un po’ attrice DI teatro! Poi riprende il suo passeggiare estemporaneo e inizia a darmi le spalle: il suo stupendo abito di scena sembra muoversi da solo, come se dentro non ci fosse nessuna, e la voce provenisse come il suono proviene da uno strumento musicale! Indimenticabile Valeria!
In un altro sogno, invaso da una sottile commovente nostalgia, Alessia si rivede a Lisbona: è l’ultima sera della Sessione ISTA e nel grande teatro della Fondazione tutti gli attori partecipanti alla Sessione stessa presentano, come da tradizione, la performance che porta il titolo generale di “Theatrum mundi”.
In quell’occasione, dopo aver visto nei giorni precedenti dimostrazioni di tecniche varie di organicità nella relazione attore-spettatore, Alessia vede agire sulla scena Torgeir Wethal, di fatto il prim’attore dell’Odin Teatret.
Di Torgeir Wethal la colpiva emozionandola, innanzi tutto il suo modo di camminare sulla scena. Da quando l’ha visto in quella magnifica intensa serata portoghese, ha capito l’importanza per l’attore di teatro del camminare sulla scena. Torgeir non cammina, ma “sfila” come una perfetta manniquin: solo che quest’ultima deve  “mostrare” e dimostrare il vestito, mentre è l’abito di scena a “mostrare” e dimostrare Torgeir Wethal: in particolare a mostrare l’energia controllata del suo corpo-mente, per cui la camminata risulta essere a un tempo esplosiva muscolarmente, e lieve come una libellula sopra i fili d’erba.
Anche Carlo Cecchi, pensa Alessia, ha un suo modo di camminare da attore di  teatro. Il suo camminare è un perpetuo sbandamento, com’è la sua stessa voce, a volte buttata lì, ciancicata, con le parole in squilibrio, come i suoi passi sulla scena. C’è Eduardo dietro e prima?... si chiede Alessia in quello che pare un sogno ad occhi aperti.
Quello che conta, comunque, pensa al volo Alessia, è che già dal loro modo di camminare gli attori “di” teatro, gli attori fini, catturano l’attenzione dello spettatore, di uno spettatore stordito, affascinato, e lo colpiscono, lo attraggono: è come guardare un calciatore al suo primo tiro. Te ne puoi innamorare subito, “stordirti” di lui, oppure puoi classificarlo come un calciatore di infima serie, pensa Alessia.
Alessia, sotto le lenzuola, ci ripensa all’attore, o attrice, che “stordiscono”: e si dice convinta che l’attore di  teatro deve sapersi creare un suo spazio d’improvvisazione.
E pensa, a occhi chiusi, immaginandosi certe situazioni sceniche,  a quelle attrici, sempre di meno, che detengono un’arte della variazione invidiabile, capace di variare toni, gesti, la linea stessa di fondo del personaggio, potendo così miscelare e intrecciare più registri. Il tragico, il grottesco, l’umoristico; lo spettatore è investito da una scarica a 10.000 volt di un languido, a volte acceso, a volte oscuro, erotismo; come pure ad alto voltaggio è la padronanza dello spazio scenico, ed avviene che per tropismo l’attrice ci porta direttamente dentro quello spazio: capacità di grandi attori DI teatro, si dice ad alta voce Alessia, mentre trapela la luce solare dalle fessure delle imposte. E pensa pure che di attori che sanno stare A teatro, o IN teatro, ce ne sono molti: di solito li troviamo negli spettacoli d’intrattenimento, o di varietà, o di cabaret; o anche in quei teatri dove prepondera la mano del regista, e l’attore alla fine è spinto a raggiungere bene o male una sua stilistica.
Alessia di colpo si sveglia, con nella testa le parole: “poesia del teatro”. Sbatte le palpebre, si tira su i capelli biondi dai riflessi dorati, e sente davvero con convinzione che molto dipende in primo luogo dalla capacità “poietica” dell’attore di svolgere il suo lavoro sulla scena con organicità, si, ripete a se stessa: “con organicità”,  determinando nella relazione con lo spettatore un flusso comunicativo che va diritto, assieme, alla mente e al cuore dello spettatore, provocandogli una sua propria drammaturgia, più o meno immediata. Tutto il resto viene dopo: elementi scenografici, luci, costumi, ecc. ecc. Tutto è poiein a teatro, pensa convintamente, capacità creativa innanzi tutto materiale, concreta, tecnica, dalla parola all’azione fisica, alla voce, insomma a tutti quegli elementi che compongono il linguaggio scenico. E si chiede: anche una performance d’attore, intesa come esecuzione di azioni, sganciata da dimensioni di finzione, di personaggio, può creare un flusso poetico che si propaga a chi assiste: e tale esecuzione è teatro? Non è teatro? Un “attore virtuale”, in quanto tale, fa parte di un teatro “altro”, o “nuovo”, o “parallelo” a quello tradizionale? Ma qui Alessia sente di non poterne più, di non poter più né risolvere né pensare nemmeno più a certi problemi, per lei veri nodi gordiani inestricabili, come ormai si sta facendo inestricabile il labirinto delle sue idee…
 Tutto sta nello scegliere tra originarietà  e originalità del teatro! si dice svegliandosi di botto in piena notte, quasi vaneggiasse. Forse pensa questo per aver visto o interpretato spettacoli teatrali ripetitivi, a fotocopia, con idee registiche a cliché.  Pensa che l’originarietà vuol dire poi affondare le radici in una tradizione che poi bisogna comunque rinnovare senza dimenticarla. Mah, sarà così, o no! Vattelapesca, intanto poco o niente lavoro, e sempre sua madre ormai ottantenne che deve aiutarla! Pazzesco, assurdo, umiliante! E ancora una volta non può fare ameno di gelidamente ripetersi che tutti i teatri e gli spazi in cui si svolgono attività artistiche dal vivo, come la musica, la danza, il mimo, il circo, il teatro di prosa, quello di sperimentazione e ricerca, sono a rischio di chiusura definitiva: basta, ad esempio, che le nostre società decretino la fine di qualsiasi aiuto economico. Si dice, pensa Alessia con un filo esile di speranza impercettibile: il teatro può essere considerato un lusso, che la società deve pagare, poiché del teatro vi è una necessità culturale, come arricchimento dell’immaginario collettivo, e dell’ideazione  politica-poetica! E  nonostante le varie crisi economiche che ci colpiscono...
E poi di colpo altra riflessione del tipo: in effetti, qui da noi in Italia, le notizie sulle “provvidenze” pubbliche ai teatri sono catastrofiche! E allora si profila un’arte, in qualsiasi modo la si articoli, essenzialmente e ancor di più che nel  Novecento, minoritaria, di nicchia, per pochi felici che la vogliono seguire! O fatta da “dilettanti” nel senso più positivo del termine e seguita da altrettanti dilettanti che gustano per motivi personali  le arti teatrali! Può darsi, può darsi, si dice Alessia, mentre s’infila tra le lenzuola nella speranza di strappare alla notte un varco di riposo incosciente e assoluto… Il fatto è che, a differenza di altre arti, letteratura pittura scultura cinema d’autore, i cui prodotti “restano”, dell’arte teatrale via via creata, presentata, protetta, resta ben poco, e resta il ricordo di grandi attori-poeti  che via via si annebbia col passare del tempo. Varrà la pena continuare a “proteggere” un qualcosa di cui quasi non resta traccia?
Alessia pensa di non essere più in grado di dare una risposta: può solo sperare che al momento, di fronte alla realtà del teatro d’oggi, vale ancora la pena farsi colpire mente e cuore da attori di teatro, anche se pochi, e sempre meno poeti. E sogna, sogna di rifare tutti gli studi, gli esercizi, i training per diventare una poetessa del teatro… per rappresentare storie, vicende e peripezie che rendano la scena un organismo vivido, vitale, coinvolgente la mente dello spettatore sorprendendolo, affatturandolo… Alessia è esausta, sente il sonno invaderla come una pesante nebbia invernale, si vede immersa in una tenue luce albale,   sente in sé  un brivido di profondo piacere, un orgasmo ben superiore a quello sessuale, un piacere più intuito nella coscienza, che provato dai sensi: e ode la voce della madre che le bisbiglia: si, è vero, il teatro e la sua poesia sono una dimensione altra e irrinunciabile e non moriranno mai più!