La citazione pirandelliana, come noto questo è uno dei titoli più significativi della estetica meta-teatrale del nostro, non è occasionale, come potrebbe a prima vista apparire, ma vuole essere un riferimento a quanto sta accadendo al nostro teatro, appunto in una sorta di teatro nel teatro, in questo complesso periodo storico, che speravamo breve ma che tuttora continua. Nel senso che l'improvvisa impossibilità ad andare in scena in presenza ha provocato le più diverse reazioni tra gli artisti e gli uomini di teatro in genere, tra chi ha ritenuto di non poter più sviluppare e realizzare la propria creatività in assenza dello spettatore e chi ha cercato invece vie alternative per non perdere il contatto con quello stesso pubblico e quindi, in sostanza, con la propria ragion d'essere e il proprio lavoro. Due posizioni entrambe legittime e ciascuna con le sue ragioni profonde, ma che comportano comunque il rischio da molti evocato della irrilevanza e dunque dell'oblio. Sullo sfondo ultimo di una questione di risorse disponibili e dunque di sopravvivenza e alla luce di una essenziale contrapposizione, tra chi dispone di sovvenzioni pubbliche confermate, i Teatri Nazionali e i Tric (bruttissima sigla) in primis, e chi no, compagnie indipendenti, giovani e artisti che fanno ricerca e sperimentazione soprattutto, si è così sviluppato un dibattitto che però ha riguardato non solo i linguaggi e l'estetica ma anche
l'economia. La questione infatti, alla fine dei conti, riguarda se e come accedere alle piattaforme televisive e on line, con quale modalità, con quale ritorno produttivo e soprattutto con che tipo di linguaggio, nella difficoltà a confrontarsi con un mondo oltremodo polverizzato e diversificato.
Tutto ciò ha mostrato l'assenza di un progetto complessivo e condiviso per l'oggi del sistema culturale, non solo teatrale, nazionale, per un dibattito che non ha ancora coinvolto efficacemente la principale industria culturale pubblica italiana, la RAI con una tradizione di intervento e promozione robusta anche se talvolta dimenticata.
Una tradizione, infatti, ora confinata su alcuni canali tematici dedicati ovvero sulla apprezzabile programmazione di RADIOTRE che ha saputo, in questo delicato periodo, ampliare gli spazi dedicati ad una riflessione sul teatro ma anche alla trasmissione di spettacoli in diretta voce (ricordiamo ad esempio il recente radiodramma “Barbablu”).
L'ultima e più rilevante iniziativa è stata la programmazione su RAI TRE, quindi una rete generalista e non tematica, di “Ricomincio da Rai Tre” con lo scopo appunto di mostrare, e sostenere mostrandoli, i fermenti del mondo teatrale nazionale mentre si sviluppano e si progettano durante il lockdown o si riorganizzano per nuove sintassi mediatiche.
Iniziativa opportuna, per quattro sabati in prima serata, condotta da Stefano Massini e Andrea Delogu di cui sono andate in onda le prime due puntate, che però ha purtroppo mostrato inizialmente i difetti di una programmazione, troppo attenta agli imput degli inserzionisti pubblicitari e così molto implicata nelle logiche dei media contemporanei, che ha privilegiato i nomi più conosciuti, forse quelli che meno hanno bisogno di sostegno oggi, con, per ora almeno, due sole lodevoli eccezioni.
Tutta la parte più fragile del teatro italiano, i giovani e la ricerca appunto, senza la quale peraltro non si costruisce neanche la successiva ribalta, anzi non si crea proprio un teatro vivo, come succede in Europa, legato alla comunità e che segua e promuova l'evoluzione estetica e culturale della Società, sembra ancora, in questa temperie di eccessiva omologazione, rimasta fuori.
Viene da pensare che, con la logica attuale, difficilmente nel passato avrebbero avuto accesso al video nomi quali quelli di Carmelo Bene e Leo De Berardinis o anche il Living Theatre cui invece fu saggiamente riservato una spazio adeguato allo sviluppo della loro ricerca.
Non si tratta solo di una questione di visibilità, ma anche e piuttosto di una questione di risorse da nuovamente canalizzare e garantire a quel mondo sommerso dei piccoli teatri, delle residenze, della strada anche, mondo che senza il suo pubblico è rimasto senza ossigeno.
Che fare allora? Io credo sia necessario che la RAI pubblica, come del resto i Teatri pubblici italiani, non tesaurizzino le risorse a disposizione ma le facciamo di nuovo fluire verso l'intero comparto ed i suoi protagonisti, promuovendo spettacoli, magari da trasmettere in modo alternativo, e pagando per questo artisti e maestranze, comunque.
Nel loro piccolo Le Albe e Ravenna Teatro l'hanno fatto, garantendo il dovuto alle compagnie invitate al loro Festival autunnale e che non hanno potuto esibirsi.
In questo la RAI può avere un ruolo essenziale, e ne beneficierebbe la cultura in genere oltre al teatro, se solo riprendesse, ad esempio come un tempo, a dedicare una serata a settimana dei suoi palinsesti principali, e non solo sui canali tematici, al teatro, trasmettendo dal vivo di un palcoscenico con i grandi nomi, ma anche con i giovani e la ricerca affinchè anche questa possa arrivare a un pubblico più vasto per esserne giudicata e apprezzata.
È solo un consiglio, ma potrebbe diventare una istanza condivisa fin nelle stanze ministeriali.