Si era definito un romantico, nel corso di una bella intervista per questa nostra rivista, che riproponiamo, ma più che una intervista un colloquio, un dialogo intorno ad un teatro sospeso tra passato e futuro, e per questo eterno nel suo continuo e rinnovato presente, colloquio nato intorno ad una delle sue ultime regie allo stabile di Genova, un reinterpretato “Intrigo e Amore” di e da Schiller. Marco Sciaccaluga si è spento ieri, per una breve e, nella riservatezza di un genovese doc, quasi nascosta malattia che lo ha portato via dalle scene e dal suo palcoscenico a soli 67 anni. Notizia triste che giunge non improvvisa ma forse volutamente allontanata quasi potesse essere rimossa. Ma a me piace ricordarlo per quella circostanza, una delle occasioni in cui ho avuto modo di intercettarne il lavoro, perchè fu una circostanza ricca di
stimoli e suggestioni che, quasi inconsapevolmente, ne definiva la complessa parabola artistica e, con essa, la ancora più complessa parabola esistenziale. Perché un romantico? Perché cercava, forse da sempre, di leggere la realtà attraverso il sentimento, inteso non come stato psicologico spesso accantonato nel sentimentalismo, ma come forma estetica che poteva guidare nell'arte e nel teatro a una migliore e più sincera conoscenza di noi stessi e del mondo in cui viviamo.
Giovanissimo, dopo il diploma alla scuola del teatro di Genova, entrò da subito nella vita artistica di quel teatro e della sua città firmando a 22 anni la regia di un celebre, e allora anche scandaloso, “Equus” di Shaffer. Da allora ha vissuto intera la parabola tra 900 e nuovo secolo del Teatro Nazionale di Genova, a fianco di Squarzina prima e Benno Besson poi, per poi ereditarne da Ivo Chiesa la condirezione insieme a Carlo Repetti, spentosi anche lui di recente.
Genova fu da allora la sua casa artistica, cosa che non gli impedì di guardare al teatro internazionale che frequentò con passione e successo e da cui attinse forza e spunti artistici.
Dal 2015 al 2019 fu consulente artistico, con la Direzione di Angelo Pastore, e poi direttore della scuola di recitazione, mettendo a disposizione la sua esperienza e competenza, ogni anno condensata nel saggio di fine corso, vere e proprie drammaturgie in cui poteva ancora intuire la sua capacità di lettura profonda del testo e della messa in scena. Ultimo una bella “Favola del Principe Amleto” da Shakespeare.
Una perdita importante per Genova e il suo Teatro Nazionale, quasi si chiudesse una stagione ricca e intensa. Rimangono le sue letture dei classici e le sue regie, per chi c'è dopo di lui e potrà farne tesoro e insegnamento.