Quando muore una personalità di rilievo, non solo nel nostro mondo, il mondo del teatro, è sempre piuttosto difficile resistere alla tentazione dell'agiografia, agevole fuga dal fare i conti con ciò che resta oltre il ricordo. Per Giuliano Scabia, mancato ieri 21 maggio a Firenze, è più facile per il segno che anche la sua mancanza a partire da ieri continua a tracciare nell'esperienza artistica, poetica e teatrale della nostra Italia. Innumerevoli le sfide che lo hanno impegnato nella sua lunga vita, sempre fedele ad una sua poesia talora spiazzante, a partire dalla giovanile appartenenza al Gruppo 63 che lo ha avviato al palcoscenico, e poi alle esperienze torinesi del decentramento e alle innumerevoli sperimentazioni per portare sulla scena la mutazione e i fermenti di una Società attraversata da mille tensioni e da sempre
rinnovate aspettative. L'Italsider di Genova ad esempio e poi, soprattutto, l'approdo alle esperienze di apertura dei manicomi, con Basaglia, di cui il famoso cavallo azzurro (Marco Cavallo) del 1973 è diventato simbolo insuperato.
Un maestro che non si dichiarava tale ma i cui molti anni al DAMS di Bologna sono stati fecondi di esperienze di didattiche innovative e coinvolgenti.
Un leader in sostanza che sapeva creare, con un tratto inesauribile di poesia ed uno sguardo limpido e quasi infantile, ma anche organizzare, riunire, stimolare ad una partecipazione mai scontata e mai fine a se stessa.
La sua ultima traccia è stata, nel Veneto da cui era presto partito per la sua avventura, “Commedia Olimpica” un lavoro teatrale complesso e, come nelle sue corde, girovago come gli scarrozzanti di un tempo.
Da quell'esperienza è nato un libro omonimo che la racconta e che ci aiuta a ricordarlo.