Portare la poesia in teatro non è semplice e spesso si risolve solo in poesia letta ad un pubblico che lì si raccoglie, e questo non è teatro. Valeriano Gialli, infatti, non porta la poesia in teatro bensì “fa” teatro con la poesia che diviene drammaturgia recitata, evento che porta ovvero ri-porta nella contingenza del transito scenico un atto creativo che tende ad un orizzonte per così dire eterno, anche se quest'ultima è ormai parola, chissà perché, difficile da pronunciare. È una contraddizione, tra ora e allora, tra qui e altrove, che la scena enfatizza e porta in tensione, ancor più quando la drammaturgia cerca la sua legittmazione nelle parole aspre e insieme melodiose di un uomo e di un poeta che della contraddizione, mi si perdoni il paradosso, ha fatto la sua coerenza, artistica ed esistenziale. Della sua vita molto sappiamo, ma molto è nascosto in quelle parole cariche di nostalgia per un mondo di antiche armonie, di dei e uomini consapevoli, un mondo antico che la modernità ha travolto, travolgendo con esso i suoi abitatori, noi, divenuti
schiavi della guerra tecnologica e della “usura finanziaria”.
Certamente la sua ricerca disperata l'ha condotto anche in percorsi ambigui, in cui è difficile discernere quella nostalgia da un improvviso innamoramento per ciò che abbaglia, ma che è un abbaglio appunto, e che non solo, oltre la sua luce, è egualmente marcio come il mondo che si vorrebbe rinnegare, ma è anche alla fine incapace di guidarci al mondo che vogliamo.
I “Cantos”, rimescolamento di estrema innovazione linguistica e richiami alla classicità, da Omero, soprattutto, al Dante tra inferno che siamo, come direbbe Camus, e paradiso perduto senza la visionaria potenza di Milton, sono i protagonisti, e si fanno presenza viva e concreta, carnale e sanguinosa, nei due attori che sono in scena, anzi che quei versi potenti mettono in scena, mettono a terra cioè sul palcoscenico e anche nella realtà.
In fondo un uomo contro Ezra Pound, come fu il più giovane Pasolini, simile anche nelle contraddizioni e nella nostalgia di ciò che non è più, in lui non la classcità ma l'universo contadino ante(e non anti)-proletario, un uomo anche ingiustamente perseguitato e offeso, tra carcere e manicomio, che però ci ha lasciato qualcosa che ancora oggi possiamo utilizzare per capire e capirci, in quello che siamo e in quello che vorremmo e forse non sappiamo essere.
Tra le innumerevoli suggestioni che la scena ci ha regalato, mi piace, per concludere, ricordare i versi illuminanti di “Usura” e mi piace metterli a confronto con quelli di un'altro grande poeta del novecento, così diverso e lontano da lui, Edoardo Sanguineti, svelando una inattesa sovrapposizione, un legame sorprendente. La poesia di quest'ultimo è “Questo è il gatto con gli stivali”:
“ma se volti il foglio, Alessandro, ci vedi il denaro: e questo è il denaro, e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie: ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente”.
Uno spettacolo di grande intensità, ben diretto e altrettanto ben recitato, con un uso delle luci e della musica che costruisce sintassi insieme alle parole.
Appuntamento del Festival “una notte d'estate”, organizzato da Lunaria Teatro e diretto da Daniela Ardini.
Traduzione Mary de Rachewiltz, con Valeriano Gialli e Loredana Iannizzi. Film Andrea Carlotto. Costumi Monica Cafiero, scenografia Paolo Data-Blin. Regia Valeriano Gialli. Produzione Teatro Del Mondo Aosta. Nel chiostro dietro piazza San Matteo, a Genova, il 29 luglio. Molto apprezzato dal pubblico.