Il teatro di figura, il teatro delle figure animate - antropomorfe, zoomorfe o totalmente astratte – è teatro di grande fascinazione, dato che per sua natura induce gli spettatori ad abbandonare ogni realismo per abbracciare la metafora teatrale più conclamata. In questo marionette, burattini, pupi, oggetti, ombre, forme le più fantasiose si imparentano, nella loro essenza teatrale, col melodramma e con la danza. Linguaggi che l’uomo si è inventato per entrare nel profondo, scrostato ogni residuo appunto di realismo.
Cosa c’è di più falso dell’opera lirica, dove addirittura si muore cantando, così come nella danza dove si muore ballando, così come per l’inerte che può acquistare anima e vita?
Tutto straordinariamente falso, artificioso, fasullo, ma proprio per questo più vero del vero. È il pieno accoglimento di una dimensione talmente innaturale da essere naturalissima, perché condivisa nell’accettazione di quel meraviglioso che amplifica le emozioni, anzi le manifesta e le rende possibili nel suo abbandonarvisi.
Il pianto per l’ultimo fiato di Violetta o per quello di Orlando è fatto delle medesime lacrime.
Si rappresenta l’irrappresentabile, rendendolo credibile attraverso un linguaggio che sublima ogni gofferia dell’esperienza spicciola quotidiana.
È il teatro teatrale, primigenio e raffinatissimo a un tempo.
Raggiungere questi esiti è un distillato di sapienza che viene da lontano, anche se il passato è per sua natura irripetibile: mutato è il pubblico, il suo immaginario, il concetto di teatro come mestiere prima ancora di arte, il metodo produttivo degli spettacoli e la straordinaria capacità delle compagnie, per necessità di sopravvivenza, di possedere un repertorio sterminato allestibile quasi all’istante. Ma quel passato è pur sempre maestro prezioso, se offre principi e non modelli. Permette di intuire come la drammaturgia, cioè la capacità di comporre lo spettacolo, fosse determinante. Il soggetto, la storia, ha in sé una forza attrattiva, ma è l’abilità di saperla adattare al proprio mezzo espressivo e alle proprie forze produttive a risultare essenziale e competitiva per la conquista del pubblico.
Un approccio anche rapido a quella concezione drammaturgica può essere forse utile.
L’Ottocento – andare più indietro è terreno insidioso per scarsità di documentazione e studi per quanto riguarda il teatro di figura - si apre con una gran fame di storie. Il sistema teatrale è totalmente diverso dal nostro, si autosostiene finanziariamente senza aiuti esterni di là da casi sporadici, e quindi la capacità attrattiva di un pubblico pagante diventa ragione essenziale di sopravvivenza. L’interscambio è continuo tra teatro lirico, balletto, teatro di prosa e teatro con marionette e burattini. Ciò che si racconta viene a formare un repertorio narrativo diffuso e condiviso, in grado di passare da un genere all’altro attraverso l’adattamento di intrecci e personaggi alle varie peculiarità delle singole compagnie. Più che sull’invenzione “prima”, cioè sulla scrittura di lavori originali, la professione, così come i dilettanti, si indirizza su una sorta di invenzione “seconda”. All’originalità del soggetto si sostituisce l’originalità del suo appropriamento: che non è solo operazione di riduzione o adattamento, ma è ricerca e messa in atto di strategie produttive a favore della messa in scena. La drammaturgia intesa come scrittura di testi è fenomeno d’importazione per l’Italia, che viene favorito da una fitta rete editoriale di collane teatrali a basso costo e di grande diffusione. Basti pensare, a titolo di esempio, che la «Biblioteca Ebdomadaria Teatrale o Scelta raccolta delle più accreditate od usate Tragedie, Commedie, Drammi e Farse del Teatro italiano, francese, inglese, tedesco e spagnuolo», edita in Milano da Visaj e poi da Barbini, viene stampata e ristampata per quasi un secolo, diffondendo ben 941 titoli fin oltre i primi del Novecento. Tali collane possiedono una caratteristica essenziale a fondamento della propria fortuna, quella cioè di pubblicare testi tradotti e rielaborati da attori, siano essi professionisti o accademici. Forniscono cioè una sorta di “drammaturgia d’attore”, capace di plasmare il testo di origine non solo secondo il gusto del pubblico italiano, ma soprattutto a misura delle compagnie che lo rappresenteranno, riorganizzando le scene per evitare troppi cambiamenti di ambientazione, accorpando o riducendo i personaggi, e soprattutto rispettando la gerarchia dei ruoli su cui tali compagnie si basano.
Anche i burattini e le marionette attingono a piene mani al repertorio offerto dalle collane teatrali, rielaborando le rielaborazioni.
Marionettisti e burattinai raramente sono autori dei copioni che rappresentano. Per lo più sono trascrittori-adattatori, nel senso che ricopiano su grandi quaderni in bella e chiara grafia, visibile da lontano o da più persone, testi a stampa o manoscritti precedenti che poi leggeranno, recitandoli, durante lo spettacolo. E ricopiandoli apporteranno quelle modifiche e quelle annotazioni che reputeranno necessarie per la realizzazione dello spettacolo. Oggi diremmo che alle battute si aggiungono le note di regia attraverso una ricca serie di indicazioni, spesso codificate, relative alla messa in scena. Le annotazioni difficilmente si riferiscono alla recitazione, che possiede stilemi consolidati e conosciuti e che quindi non necessitano di essere ricordati, ma alla parte più tecnica dello spettacolo: elenco delle “robbe” (attrezzeria), delle scenografie e dei personaggi necessari (comprensivi dei “doppi” nel caso di cambi di costume), la disposizione delle marionette o dei burattini al lato destro o sinistro della scena, la direzione di uscita e quindi di entrata, gli effetti di scena, visivi e sonori, con il momento esatto della loro preparazione per essere pronti a tempo…
La necessità non è conservare il testo, ma la memoria dello spettacolo per poterlo riallestire rapidamente alla bisogna.
Va reso ben presente che la storia può anche essere la stessa, ma la sua traduzione scenica è assolutamente diversa se allestita da marionette o da burattini, con moltissime varianti determinate dalle tante tipologie esistenti all’interno dei due generi. Così come cambia l’esito spettacolare se la storia è proposta da compagnie stabili oppure nomadi (che possiedono dinamiche diverse), se rivolta a un pubblico cittadino o di campagna, se tanti o pochi sono i componenti delle compagnie o se ci sono o meno attrici a dar vita ai personaggi femminili… le variabili sono veramente moltissime.
Per questi motivi, storicamente, la proprietà del copione non è dell’autore, ma della compagnia che lo possiede fisicamente sotto forma di una sorta di quaderno dello spettacolo che contiene la storia, la sua ripartizione, le battute scritte e a soggetto, le istruzioni per la messa in scena… il tutto rielaborato a proprio uso e consumo. La proprietà è di quell’unicum: non di ciò che viene raccontato, ma del come viene raccontato. Tali quaderni, in quanto strumento di lavoro, sono soggetti a logoramento, necessitando pertanto cicliche ricopiature. È questo il motivo principale per cui, tranne rare eccezioni, difficilmente sono stati tramandati manoscritti anteriori al 1850.
La principale operazione drammaturgica messa in atto da marionettisti e burattinai, da un punto di vista testuale e non strutturale, è quella di inserire all’interno del copione da rappresentarsi il personaggio comico (o la coppia comica) che caratterizza la compagnia, e che normalmente viene a sostituire un personaggio presente nel testo originale oppure è il frutto della fusione di più personaggi. Si tratta di una necessità imprescindibile, dato che tali personaggi, anche grazie all’uso del dialetto, ovvero la lingua del pubblico di riferimento, vengono a gettare un ponte di complicità e di reciproca identificazione tra palcoscenico e platea: una complicità ulteriormente rafforzata dal fatto che tali caratteri ricorrenti e consolidati sono presenti in ogni spettacolo e in ogni storia, indipendentemente dalle varie epoche d’ambientazione e dai vari contesti, permettendo quindi di mettere in atto slittamenti metateatrali allusivi alla cronaca quotidiana.
Per l’Opera dei Pupi vale un discorso a parte: siamo di fronte a una scrittura scenica complessa, quasi una liturgia verrebbe da dire, che procede per moduli e funzioni inseriti a sostegno scenico dell’arco narrativo.
Di là dalle drammaturgie e dalle strategie messe in atto la necessità ultima è comunque sempre la medesima, quella cioè di fidelizzare il pubblico, di fare in modo che gli spettatori paganti siano indotti a ritornare a teatro quante più sere possibile. Marionette e burattini ci provano cambiando proposta ogni sera; i pupi raccontando un'unica storia, il “ciclo”, che si sviluppa a puntate giorno dopo giorno anche per sedici mesi. La scrittura teatrale è figlia della necessità, con regole dettate dalla praticità del fare spettacolo, come si evince anche da queste rapide osservazioni, desunte guardando al passato.
E oggi?
Per rispondere facciamo ancora un passo indietro, attraverso le parole Roberto Leydi tratte dal suo fondamentale saggio Marionette e burattini (1958):
«Il mondo meraviglioso delle marionette e dei burattini incomincia proprio là, al confine estremo dello spettacolo teatrale, dove fallisce l’ultimo sforzo di stilizzazione espressiva e d’astrazione logica del corpo umano. Quando l’attore vivo s’arresta, vinto dal peso dei superstiti legami materiali, entra in scena il fantoccio di legno a costruire, dal nulla, un mondo nuovissimo dove ogni convenzione umana viene a cadere, dove ogni gesto impuro si dissolve, dove l’iridescente costruzione della fantasia si compone e si scompone, magico caleidoscopio di gesti, nella libertà più tesa. Soltanto le marionette e i burattini, questi attori senza passato umano, senza ricordi, senza problemi, riescono allora a compiere il miracolo definitivo e straordinario: proiettare il gioco immutabile delle verità palesi e riposte in una nuova, impossibile dimensione. Certo le marionette e i burattini possono facilmente cadere nell’imitazione ingenua e inutile dell’attore vero, nella ripetizione insensate e ridicola dei modi facili dello spettacolo teatrale maggiore, ma all’estremo opposto la loro grandezza e la loro superiorità sono innegabili».
Si è volutamente citato questo brano, perché Leydi lo scrive alla fine degli anni Cinquanta, nella certezza che quello raccontato fosse un mondo prossimo alla fine. Non poteva pensare altro, con le compagnie piccole e grandi che chiudevano una dopo l’altra sopraffatte da un tempo che spazzava via rapidamente ogni radice contadina bollata come “vecchia” e specchio di miseria e povertà.
Ma non è stato propriamente così. Certo quel sistema teatrale e quel pubblico e quella funzione sociale sono inesorabilmente tramontati, ma non il linguaggio delle figure che ha saputo rinnovarsi, proseguendo il suo cammino plurisecolare, ma anche uscendo dai binari di quella che impropriamente viene indicata come “tradizione”, per esplorare altre scene possibili, pur sempre attraverso le prerogative di quel “meraviglioso” ricordato da Leydi.
A guardarsi attorno, a ricercare l’anima del teatro fuori da etichette generalizzanti, ci si può stupire: è incredibile come il linguaggio delle figure, nel suo senso più ampio, sia oggi così diffuso e radicato, fosse anche solo per un lampo all’interno di uno spettacolo. Spesso sono i contesti che ci fanno percepire i generi, determinando dei pubblici. Così capita che un medesimo spettacolo presentato per esempio in un festival di danza, o di teatro di ricerca o di teatro di figura è spesso visto e apprezzato solo da quel pubblico specifico che mai andrebbe a vederlo in altra situazione o se visto potrebbe ricevere diverso consenso.
Per quanto sia fascinoso il teatro di figura altrettanto è insidioso, tanti sono i piani della rappresentazione e i codici messi in campi e i segnali inviati e recepiti dagli spettatori. Drammaturgia e regia sono spesso un tutt’uno essenziale, inscindibile, per avere ogni componente sotto controllo senza devianze. La forma è sostanza e la sostanza è forma. E poi, imprevedibile nel suo deflagrare, è quel mistero proprio del teatro di figura che è la figura stessa, che di là da ogni concetto, da ogni pianificazione, improvvisamente può prendere il sopravvento e rivelare un’espressività che pare dotata di autonomia (“anima” direbbero i poeti) che può sovvertire il progetto stesso di spettacolo e condurre in altre vie di fascinazione. Dai burattini più rozzi alla ricerca più sofisticata chi si è cimentato con questa lingua del teatro conosce bene tale mistero, irrazionale e concreto ad un tempo, che rende le figure veicolo di rivelazione, guida nella creazione. Non a caso Guido Ceronetti chiamava le sue marionette “ideofore”.
Scrittura complessissima quindi quella del teatro di figura, quasi magica e totemica.
La rubrica che da oggi prende avvio vuol essere un contributo alla riflessione: un’esigenza particolarmente sentita e ritenuta necessaria, tanto che vi hanno aderito con entusiasmo molti tra gli artisti più significativi del panorama italiano. Ognuno con la propria competenza più specifica, ognuno dalla propria visione frutto di una vita di lavoro tesa a un continuo superamento di se stessi. Una scrittura figlia delle mani e degli occhi per suggerire altre percezioni e altri sguardi.