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Motus ritorna al cerchio tragico del mito, al luogo circolare della danza e del canto, alla eco di un antico dolore che nessun canto potrà spegnere e consolare e che ci circonda scivolando alle nostre spalle verso l'assoluto e l'infinito. Lo fa guardando, e facendoci guardare ed ascoltare, il nome stesso di quel dolore, Ecuba prigioniera sulla spiaggia della sua città vinta, circondata dai figli guerrieri già uccisi e dalle figlie destinate, come ogni donna in guerra e in ogni dopo-guerra, ad un presente e ad un futuro di sottomissione e schiavitù, ovvero di morte sacrificale. Il sentiero è segnato dagli antichi versi di Euripide e dalla rivisitazione che, in una età moderna in cui nulla però sembra cambiato, ne fa Jean Paul Sarte nelle sue “Troiane” ritrovate forse su un'altra spiaggia, quella dell'Algeria in fiamme, e di nuovo espressione di una sentenza inappellabile contro l'assurdità di ogni guerra, di fronte alla quale i vincitori non hanno altra soluzione che volgere lo sguardo altrove, quella di essere

ciechi senza essere sapienti. Al centro del cerchio della scena, dell'orchestra antica, un cumulo di sabbia, un po' morbida duna e un po' tumulo cui non mancano cadaveri da ricordare. Ecuba ne è l'unica abitatrice, regina ormai senza regno ma con troppi e dolorosi ricordi. Il coro li enumera nella sua cantilena ma la parola diviene man mano inadeguata, incapace di contenere un dolore e una rabbia che non è solo esistenziale ma è soprattutto, e si fa, assoluto, universale.
Ecuba non ha parola dunque, ma solo suoni e mugolii strazianti, trasformata in “cagna nera dagli occhi di fuoco”, pur restando sempre ed in essenza donna, dalla maledizione di Polimestore, che le ha ucciso il figlio rompendo ogni vincolo e a cui lei ha ucciso i figli per vendetta, accecandolo poi con furia e rabbia.
La maledizione di Polimestore la precipita dunque, oltre e al di fuori di ogni “inferenza logica”, nella condizione assoluta e ultima di corpo, come un animale ferito capace solo di raccogliere il dolore intorno a sé ma incapace di liberarlo nella parola, in sé e negli altri.
Mugola Ecuba, e quel mugolare è icastico di un soffrire come un cane, di un esplodere di un dolore insopportabile, eppure ci accompagna nella conoscenza di noi più e oltre ogni parola, di tutte le parole che in fondo cercano di consolare e mediare.
Con Ecuba ci accompagniamo così da un passato irrinunciabile ad un futuro da capire e da costruire.
Silvia Calderoni è, come suo proprio, straordinariamente presente a partire dal corpo che sembra introiettare ed elaborare le parole del suo dolore per restituircele chiare e profonde nel suono suggestivo della sua voce, quasi un diapason che dà a tutti noi il ritmo, e nel movimento che detta i tempi della nostra consapevolezza. Rabbia forse ma soprattutto dolore che ci porta per mano.
Uno spettacolo suggestivo e intelligente, per l'ideazione e la regia Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, usi ormai da tempo a percorrere sentieri e territori del teatro poco esplorati perchè, forse, pieni delle spine più autentiche della vita, ma anche dei suoi balsami più profumati.
Suono eccellente di Enrico Casagrande, luci di Daniela Nicolò, fonica Martina Ciavatta. Props e sculture sceniche_vvxxii. Video e grafica Vladimir Bertozzi. Una produzione Motus con il sostegno di MIC, Regione Emilia-Romagna.
Lo spettacolo è una sorta di introitus, ovvero una emanazione creativa di uno spettacolo più organizzato tratto appunto dal testo di Jean Paul Sarte: “Tutto Brucia” in programma nei prossimi mesi.
“Non eri altro che vento” è stato presentato quale ultimo spettacolo,  il 17 ottobre al Teatro Felix Guattari di Forlì, uno spazio molto bello e curato, nell'ambito del Festival “Crisalide. La cura del sé come pratica della libertà”, organizzato da Masque Teatro dal 30 luglio al 17 ottobre e giunto alla ventottesima edizione.
È questa una iniziativa importante, molto articolata, un evento dalle molte facce che consente di apprezzare alcune delle più interessanti creazioni del “Nuovo Teatro” italiano, ma non solo. Infatti a fianco di spettacoli, laboratori, mostre e installazioni, Masque Teatro mantiene una sua abitudine, inconsueta, quella di riservare uno spazio dedicato alla filosofia e al fecondo esercizio del pensiero, per non dimenticare una fratellanza, o quanto meno una cuginanza, quella appunto tra teatro e filosofia, ultimamente poco frequentata in questa epoca che soffre a mio avviso di un vero e proprio deficit di filosofia.
Tre i momenti a ciò dedicati nell'edizione di quest'anno, anche collegati come di consueto ad un evento teatrale: Enrico Piergiacomi con “Socrate il Tifone” (dopo “Pragma. Studio sul mito di Demetra” del Teatro Akropolis) il 27 agosto; Ubaldo Fadini e Marco Tronconi con “Singolarità presenti” il 5 Settembre; Enrico Pitozzi con “Beatitudo. La tecnica dell'attore come cura di sè” il 12 settembre.
In effetti spesso i territori e le comunità custodiscono perle di cultura non sempre valorizzate come meritano dalle Istituzioni Teatrali, luoghi cioè in cui il teatro, anche al di là delle consuetudini e delle abitudini artistiche e produttive, è coltivato tuttora come rito che si rinnova eguale e sempre diverso, intercettando ed anticipando il movimento del tempo e le sue ricadute, in cui il senso profondo del fare teatro è di nuovo rintracciabile e intensamente fruibile come un nutrimento od una medicina della mente. La tensione verso tutto questo è presente, talora nell'indifferenza diffusa o anche nel fastidio di alcuni, nelle intenzioni e nelle finalità di Masque Teatro, sia a livello produttivo e di stimolo verso le giovani tendenze, sia a livello di creazione specifica, e andrebbe credo meglio e più premiata di quanto accade.