Fausto Paravidino rivive e fa rivivere Bertolt Brecht e il suo teatro politico, ma è un Brecht approdato nell'epoca della “morte delle ideologie” novecentesche, annegato quasi nella società liquida di Zygmunt Bauman, ove le identità si sovrappongono e sfuggono, e con esse l'idea e il senso di una condivisione, di una comunità anche aggressiva e contrapposta, tra reazione e rivoluzione, ma comunque definita e capace di essere sé stessa. Così i personaggi assai densi di quegli anni tra le due guerre mondiali, anni tanto turbolenti ma anche rutilanti di idee sul mondo e del mondo, si fanno vaghi e confusi nei loro contorni, nelle loro identità drammaturgiche quasi assorbendo lo spirito di questo tempo inquieto, di questo “oggi” disperso in mille canali, tributari e affluenti di un fiume inesistente. La scrittura di Paravidino, d'altra parte, è sempre brillante e ironica, anche comica talora, e riesce ad essere, come in occasioni migliori, uno sberleffo schiaffeggiato sul viso disattento della
società, ma la trama narrativa appare slabbrata, qua e là ferita e interrotta da influenze linguistiche, tra cinema e televisione, che ci appaiono estranee all'alienante cabaret brechtiano.
Pertanto la costruzione scenica, ben organizzata e corroborata dalla vivida figuratività di una scenografia in cui emergono, come relitti, slogan inattuali e simboli di rivoluzioni e di una lotta di classe che pochi ricordano e alcuni giustamente rimpiangono, dopo un inizio promettente sembra alla fine esaurirsi, nella scena finale della visita del Papa, in una petizione di principio in cui la critica dell'esistente è meno incisiva di quella che vorrebbe essere.
Uno spettacolo che ha comunque il merito di recuperare, o almeno di tentare il recupero di un teatro più spiccatamente ed esplicitamente politico di cui forse torniamo ad avere bisogno per ritrovare la coscienza di differenze e ingiustizie persistenti e peggiorate ma seppellite appunto dietro lo slogan, estremamennte di parte e di una parte sola, quella della borghesia dominante, della fine delle ideologie e della lotta di classe che invece continua o dovrebbe continuare.
Recuperare quella coscienza di classe che ha guidato gran parte del novecento, diceva Edoardo Sanguineti, mai abbastanza ricordato, è essenziale per liberarsi di quelle falsità che la società ci impone e che la scena palesa con efficacia nelle maschere che coprono i volti dei sottomessi.
Una drammaturgia da cui forse ci si aspettava di più, ma comunque sostenuta dalla regia multisegnica dello stesso Paravidino, che si improvvisa anche chitarrista rock, e dalla recitazione, con un Rocco Papaleo efficace capitalista (forse) pentito e comunque controverso e contraddittorio.
Produzione Teatro Stabile di Bolzano, Teatro Stabile di Torino e Teatro Nazionale di Genova. Regia Fausto Paravidino. Interpreti: Rocco Papaleo, Fausto Paravidino e con (in o.a.) Romina Colbasso, Marianna Folli, Iris Fusetti, Davide Lorino, Daniele Natali. Scene: Laura Benzi. Costumi Sandra Cardini. Maschere Stefano Ciammitti, Arianna Ferrazin. Musiche Enrico Melozzi. Luci Gerardo Buzzanca. Video Opificio Ciclope.
Al teatro Ivo Chiesa di Genova dal 17 al 21 Novembre.