Franco Scaldati aveva occhi dolci e profondi, barba da mangiafuoco, voce cavernosa e la sua lingua era intrisa di echi millenari e umanissima ironia. A vederlo e sentirlo gli avresti dato millecinquecento anni, ma poi ti stupiva perché sapeva stupirsi del mondo e sapeva stupirsi del mondo perché veramente era un poeta. Strutturalmente un poeta: innamorato delle parole, della vita e delle storie che si celano in esse e si rivelano soltanto a chi sa scavarle con fatica e amore. Un poeta innamorato del ritmo che si può ricamare tra e con le parole, e innamorato della danza delle parole che, pur segreta e silenziosa, è capace di farle esplodere di senso, di sensi, di conoscenza. Un poeta, molto prima e molto più che quello straordinario teatrante che, come pochissimi altri, ha segnato il volto teatrale di Palermo e della cultura del nostro paese. Ora che però Scaldati non c’è più i suoi testi, anche i più noti e conosciuti, si presentano nella forma di rebus poetici e di enigmi teatrali. Come
metterli in scena? Come dialogare con essi, come tradurli? Come trasporli in una lingua scenica che, in qualunque caso, non può (più) essere quella del maestro? Quale fedeltà prestare alla loro sostanza d’arte? Quale legittima infedeltà praticare?
Ecco, è a partire da questi presupposti e da queste domande che va letto, compreso e apprezzato ogni spettacolo che parte da un testo di Scaldati. Scriviamo in questo caso di “Totò e Vicè” lo spettacolo pensato e diretto da Giuseppe Cutino e tratto dal celebre e omonimo testo di Scaldati (del ‘93), che si è visto a Palermo sulla scena di Spazio Franco (nomen omen) il 25, 26 e 27 febbraio. In scena Rosario Palazzolo (Totò) e Anton Giulio Pandolfo (Vicè), mentre ai quattro angoli, presenze discrete e fondanti dello spettacolo, ci sono Egle Mazzamuto (canto popolare), Sabrina Petyx (presenza narrante) nonché i due musicisti Maurizio Curcio (polistrumentista e compositore) e Pierpaolo Petta (fisarmonicista e, anche lui, compositore). Il contesto è la rassegna di Teatro Contemporaneo “Scena Nostra” organizzata da Peppe Provinzano.
Si può solo dire bene di questo lavoro che ha tutte le qualità che da uno spettacolo teatrale si possono desiderare: profondità di pensiero e leggerezza di tratto nella scrittura e nel disegno complessivo, disciplina attorale e intelligenza interpretativa nei due interpreti e nelle altre figure in scena. Tutto, e tutto nella giusta misura: lo spettacolo finisce e il pubblico avrebbe ancora voglia di restare lì a godersi questa piccola meraviglia. Una piccola meraviglia di poesia e teatro che Cutino annoda, sin dalla prima battuta, a quel cuore pulsante e vivo che è il ritmo interno della poesia di Scaldati. Non a caso, definisce “Operina per voci e ombre” questo suo lavoro. Entrano i due musicisti, entrano Mazzamuto e Petyx, entrambe di partecipe e solida espressività, comincia il flusso ritmico della musica, del canto popolare, della narrazione e quasi non servirebbe altro a completare quest’incanto, significante in sé e immediatamente ipnotico. Ma ecco che, insieme con gli attori, sembra entrare proprio Scaldati, proprio lui col suo amore per le storie invisibili, laterali, periferiche, intimamente dialettali e contemporaneamente universali. Entrano cercandosi Totò e Vicè che si erano temporaneamente e reciprocamente persi. E si trovano, si trovano per non perdersi mai, mai più loro due, mai più fino alla morte cercata, ricevuta, sfidata e accolta insieme. È rifiutato e radicalmente escluso ogni disincanto d’amicizia, d’amore, d’umanità semplice, feconda e misteriosa. È evitata come la peste ogni vuota leziosità. Restano sicuramente Totò e Vicè, ma in una dimensione metafisica che è profonda, interessante, colta e, se si vuole, anche lontana da quello che siamo abituati a immaginare il teatro di Scaldati. Restano Totò e Vicè, ma restano anche, esattamente, Saro Palazzolo, brusco, spigoloso, sornione, divertito abitatore del paradosso e del non sense, ottimamente disciplinato nella misura che (in un fitto e visibile dialogo tra artisti) gli ha suggerito Cutino e Anton Giulio Pandolfo che disegna il suo personaggio in una misura di affettuosa, stralunata, poeticissima leggerezza.
Doveroso post scriptum: il grande talento registico di Giuseppe Cutino non è un mistero per nessuno a Palermo. Sarebbe ora che si riconoscesse a questo artista, che non fa anticamera e non sgomita né scalpita, il posto che per merito gli spetta. Per merito. Nella sua città e nel teatro pubblico.
Totò e Vicè
Operina musicata per ombre e voci di Franco Scaldati. Con Rosario Palazzolo e Anton Giulio Pandolfo e con la partecipazione di Egle Mazzamuto e Sabrina Petyx. Musicisti Maurizio Curcio e Pierpaolo Petta. Da un progetto di Anton Giulio Pandolfo musiche originali Maurizio Curcio, “La Ballata di Totò e Vicè” per fisarmonica sola di Pierpaolo Petta. Costumi di Mario Dell’Oglio per DELL’OGLIO PALERMO 1890. Movimenti di scena di Totò Galati, disegno luci di Gabriele Gugliara, datore luci Michele Ambrose, aiuto regia Peppe Macauda, adattamento scenico e regia Giuseppe Cutino. Progetto di Associazione Culturale Energie Alter-native, Palermo. Produzione esecutiva di ACTI Teatri Indipendenti di Torino, con il sostegno di Babel /Spazio Franco, Palermo e Compagnia dell’Arpa.
Foto Stefania Mazzara