La rubrica si concede un respiro da intervallo per interrompere la catena degli articoli firmati dagli attuali protagonisti del teatro di figura italiano e così dar voce a un autorevolissimo testimone del tempo passato: uno spettatore di eccezione che ha saputo cogliere tra le righe la particolarissima drammaturgia dei burattini di piazza. Si tratta di Giuseppe Giacosa (1847 - 1906), uno dei pochissimi intellettuali italiani, se non l’unico, che ha guardato allo spettacolo dei burattini non come a un pittoresco fenomeno di costume, ma come teatro a tutti gli effetti. Giacosa è autore di un Elogio della marionetta e di una commedia filosofica sempre per marionette intitolata emblematicamente Il filo. Qui si ripropone invece uno scritto dimenticato comparso sulla “Rivista teatrale italiana” del 1901. È dedicato a un burattinaio di piazza di cui però non si rivela il nome, anche perché ciò che colpisce Giacosa, e che rende prezioso quell’articolo, è la concezione compositiva dello spettacolo. Certo anche Giacosa non resiste dal calcare la mano sull’elemento oleografico, ma ciò non diminuisce l’acutezza con cui i burattini “piazzaiuoli” vengono letti come un vero e proprio modello drammaturgico fuori da ogni logica corrente. Anzi Giacosa vede in quel tipo di spettacolo “uno dei più sapienti portati della scienza teatrale”, dove addirittura si può non avere un inizio e neppure una fine. È la perfezione della razionalità sovvertita del “dramma circolare a intreccio perpetuo”, dove ogni scena vive di per se stessa e dove lo spettatore di passaggio può fermarsi anche solo un attimo e capire immediatamente tutto e divertircisi. Altro che commedie borghesi a tesi. È la funambolica, assurda, violenta scombiccheratezza dei burattini: forza allora stato puro e urlo di libertà.
Alfonso Cipolla
Un grande artista
Giuseppe Giacosa
Vidi anni orsono, in piazza Milano a Torino, un burattinaio dell’antico stampo, uno degli ultimi maestri della grande arte pazzaiuola.
Non era giorno di mercato, e pure trovai davanti alla baracca del burattinaio una tal folla, e di gente adulta, che mi toccò, per venti buoni minuti, sentire il dramma a occhio, tanto era largo il circolo degli ascoltatori. E quando girava il piattino per la questua, i soldi e anche doppi, fioccavano allegramente, senza contare il getto concentrico che seguiva a più rari intervalli. Ho in mente quello spettacolo come cosa di ieri. La baracca è forse più sdrucita delle solite e più piccola: le quinte non hanno peso alla base che le distenda e le mantenga in una relativa stabilità. La prima quinta rappresenta il solito panno che vuol essere porpora a gran piegoni, la seconda rappresenta un albero. Dico un albero, sulla fede di un signore dei posti distanti cui mi trovai vicino, quando, dopo mezz’ora di spintoni, mi riuscì di guadagnare la seconda fila, ed egli stava nella prima. Doveva essere un abbonato perché non lo vidi mai sborsare quattrini: portava orecchini di ciliegie vere e gli pendeva dalle spalle sulla schiena, un cervo volante di carta.
Invoco la sua autorità, perché mi parve espertissimo di cose teatrali: raccontava i fatti drammatici prima che seguissero, e annunziava i personaggi prima del loro apparire. Quando gli domandai che cosa rappresentasse la seconda quinta, mi rispose: “Un albero” in tono così sicuro e così meravigliato della mia domanda, che mi vergognai di averla fatta. Del resto, non era né una casa, né una colonna della sala del trono, né una rupe: poteva benissimo essere un albero. Un albero che svettava dalle radici invece che dai rami, ma il mondo rappresentato su quelle scene procede a rovescio del nostro: la giustizia vi è assoluta e speditiva, la povera gente ha sempre ragione, gli usurai sono spennacchiati, i liberi cittadini arrestano i carabinieri, i malandrini avvertono le loro vittime del colpo che stanno tramando, i re comandano; è ben giusto che nell’ordine naturale accada quello che accade nell’ordine sociale, e che l’invertimento dei fenomeni fisici prepari, accompagni e faccia credibile quello dei fenomeni morali.
Questo superbo spregio della verosimiglianza negli apparati scenici è comune a quasi tutti i teatri piazzaiuoli, ma da qualche anno in qua esso contrasta col loro repertorio, che va facendosi ordinato e sensato. I burattini si sono messi a recitare in piccolo le stesse commedie che gli attori recitano in grande: commedie a intreccio, a tesi, colla loro brava preparazione, cogli spedienti giustificativi, colle tirate, coi pistolotti, colla catastrofe. Che rimane allora della superiorità dei fantocci di legno?
Il gran merito del mio magistrale burattinaio sta in ciò: che il suo repertorio seguita ad essere deliziosamente assurdo, e i suoi personaggi interamente sciolti da ogni vincolo di logica o di ragione.
I fatti seguono, impensati, imprevisti: la commedia ha la meravigliosa ampiezza di un’azione che non comincia e non finisce. A qualunque momento del dramma, lo spettatore tardivo arriva in tempo; ogni scena diverte ed interessa per se stessa, non in ragione delle scene che la precedettero, non in vista delle seguenti. Perché mai ora entra il re, o il frate, o Guerrino il Meschino, o la strega, o il diavolo, o il brigadiere francese? Chi lo sa? Chi lo domanda? Entrano: hanno per esistere la suprema ragione dell’esistenza. E parlano subito come se il pubblico conoscesse i fatti loro, e avvertisse la trama invisibile che collega l’azione dell’uno a quella dell’altro. Escono come sono entrati, eroicamente impassibili nella loro assurdità. Dato un tale procedimento artistico, l’azione del dramma si può protrarre all’infinito. Il nostro burattinaio però la spezza in certi momenti ritmici, sensibili soltanto ai più pazienti spettatori. È la teoria dei ricorsi applicata all’arte drammatica. Quando seguite il dramma da oltre un quarto d’ora, vi pare che l’azione rifaccia il cammino già percorso, che ritornino nello stesso ordine i personaggi e compiano i fatti istessi. Da principio è un sospetto vago, il quale a mano a manosi muta in certezza: l’umanità lignea che avete sott’occhio rinnova a se stessa la propria storia, si assoggetta alle medesime prove, le supera nell’identico modo.
In ciò è adombrato un profondo concetto filosofico: il burattinaio è Gian battista Vico, che spezza in esempi i precetti della scienza nuova. Ma il punto che separa o congiunge questi diversi periodi rimane oscuro. Lo spettatore a un bel momento si ritrova nella scena di mezz’ora innanzi, ma non può dire come ciò sia avvenuto.
Mi era parso da principio che lo scambietto si compisse nel momento che Gianduja finge il morto, e a chi lo tasta per sentire se è in vita, dà, di sottomano, delle botte formidabili: ma dovetti ricredermi. Un’altra volta pensai che il punto fisso fosse la venuta del diavolo che getta in inferno o manda in paradiso le nove vittime della sommaria giustizia di Gianduja: ma questa scena che ricorreva più volte non era seguita, ogni vota, dagli stessi incidenti. Eppure, nonostante la bella insensataggine dell’azione, qualche ordine embrionale, si riusciva ad afferrarlo, i fatti avevano tra di loro qualche nesso sottile, c’era un punto in cui il dramma sembrava voler giungere, e del quale sembrava aver preso principio. Mi tornava alla mente una certa canzone francese di due sole strofette rientranti in sé stesse:
Ils étaient quatre
Qui voulaient se battre
Ils étaient quatre
Dont trois ne voulaient pas.
Le quatrième dit
Moi je m’en soucie guère
Le quatrième dit
Moi je m’en soucie pas.
Ce qui n’empéche pas…
Qu’ils étaient quatre
Qui voulaient se battre, etc etc.
Ma qui ciè il verso: Ce qui n’empéche pas, che lega:là non appariva nessun segno di congiunzione: eppure il senso tornava sempre allo stesso modo.
Tale dramma circolare a intreccio perpetuo, mi pare uno dei più sapienti portati della scienza teatrale, e non esito a consigliarlo ai nostri capi comici.
C’è un momento della commedia in cui Gianduja, dopo aver accoppato sette rispettabili persone, è minacciato di non so quale terribilissimo evento. Egli lo sa, e ne trema, e raccoglie in scena, per via di successivi inabissamenti, un arsenale di armi d’ogni fatta: pistole, spade, randelli, cannoni e bandiere (queste ultime non è ben chiaro a che debban servire), armi gigantesche ch’egli maneggia con maravigliosa destrezza, benché tutte, anche la spada e la pistola, siano più grosse di lui.
Alla vista di tale apparecchio, corre nel pubblico un fremito di terrore e d’impazienza; deve succedere qualche grande fatto; le cuoche, già sul punto di far giudizio, ritardano di un altro quarto d’ora i déjeuners padronali, gli orecchini di ciliegia del mio vicino stanno immobili come se pendessero alle orecchie di una statua. Gianduja grida: “Ci siamo” e si getta per morto per terra.
Allora il burattinaio sbuca dalla baracca e prende spazio intorno: “Via, via, via, indietro, bambini, è un momento a farvi male: parte un colpo e vi accieca in quattro, e chi la paga son io; indietro, indietro, cisi vede lo stesso; finora vi ho lasciati venirmi tra i piedi che toccavate la baracca, ma adesso scoppia la bomba della battaglia, via, via via!”.
E fa il giro intorno con aria paterna, a buffetti carezzevoli e a carezze pesanti, allargando il cerchio, ridendo bonariamente, pauroso non seguano disgrazie, crescendo con tali riguardose cautele la curiosità e l’ansia del pubblico.
Poi, ottenuto campo, si avvia per rintanarsi, ma, nel momento di sparire, quando già aveva messo la testa nella baracca, ne riesce come per un pensiero che gli sopravviene, si volta al pubblico, con l’aria afflitta e severa di un padre indulgente che deve lagnarsi dei figliuoli, scuote la testa come a dire: “Chi lo crederebbe?” e comincia:
“Neh! Padroni, neh! Sei soldi! sei soldi ha fatto il giro il bambino, sei soldi… per un pubblico di tremilasettecentoventidue persone. Cosa ne dite? Adesso viene la pirotecnica, e me ne va una cappellata in polvere da cannone. Animo neh! Io comincio lo stessoe vado avanti se anche non tcco un centesimo, ma voi prima mi dovete dare dodici soldi fra tutti, qui nel mezzo… anche a due centesimi la volta: argento non ne voglio perché costa il cambio. Chi fa il primo?”.
E qui comincia un gioco dilettevolissimo.
Il burattinaio adocchia il pubblico, coglie l’atto di chi butta il soldo, misura a occhio la direzione e il tempo del getto e va a salti a cacciarsi sotto il proiettile, fingendo questo gli piombi sulla testa e lo ferisca. E si mette le mani sulla testa, e urla dal dolore, e si rivolta incollerito verso il pubblico e lo apostrofa vivacemente, con comicità così sincera, così sicura, così maliziosa, così cosciente della dabbenaggine pubblica e così gaudente quale non ho mai riscontrato negli attori comici dei veri teatri. E i soldi fioccano, ed egli ne mentisce il conto con una ammirevole impudenza… e si mette a dialogare col suo ragazzetto, e ogni soldo che raccoglie lo destina a tale e tale uso… questo per la farina, quello per la legna… quell’altro per la pigione, e sa i lazzi e i motti che toccano al vivo la gente povera che lo arricchisce, e le ironie che ripagano quei sofferenti di cento dolori. Alla fine, fatta tre o quattro volte la somma richiesta, si rimbuca nella baracca e sveglia Gianduja. Il pubblico apre gli occhi, le serve delicate si turano gli orecchi. Ma nel frattempo è soffiato sul mondo burattinesco un vento di pace, e le armi non servono più a nulla. Il dramma riprende il suo giro da organetto. Il diavolo spiana il mucchio dei morti, questi rivivono, riappaiono, sono riuccisi da Gianduja. Appena il pubblico si è rinnovato, riaccumula le armi e il burattinaio rifà il largo, i discorsi e i quattrini.
Se vi capita andateci; è uno spettacolo gustosissimo.