I coniugi De Meis più volte mi avevano invitato ad una cena nella loro terrazza prima che la caldissima estate romana finisse. A dir la verità non avevo una gran voglia di accettare l’invito stabilendo data, orario, e così via, e sapevo bene il perché: saremmo stati, secondo le loro parole, solo in tre, io, Pietro ed Elena, essendo i loro figli, Nora, Betta e Diego in giro per il mondo a consumare le loro vacanze estive. Per esperienza m’immaginavo con ricchezza di particolari come sarebbe finita la serata: discussioni estetiche, baruffe fra coniugi, ciascuno tetragono nel difendere le sue idee artistiche, impossibilità da parte mia di portare avanti un ragionamento, una considerazione, più lunghi di 2 o 3 minuti. Eppure alla fine accettai, e ora confesso il perché: li conoscevo ormai da diversi anni, avevo incontrato Elena per prima, e mi piaceva molto dal punto di vista fisico, e l’attrazione fu vicendevole, ma la storia durò poco, perché mi chiamò un’Università inglese, e col passare del tempo persi di vista Elena.
Caso volle che Pietro, mio vecchio compagno di studi, a mia insaputa, conobbe Elena durante la preparazione di una serata, dove entrambi si dovevano esibire: fu la scintilla che accese il loro fuoco d’amore, che poi, anno dopo anno, restò sì acceso, ma come le braci sotto la cenere: si capiva che ogni tanto una soffiatina sotto le ceneri riattizzava il loro fuoco, anche eroticamente, nell’abbraccio culminante per entrambi: insomma, si ripeteva la dinamica amorosa di tante coppie non più giovani. Eppure io, con l’immaginazione, riuscivo a vedere Elena con le sue sembianze giovanili, i suoi occhi chiari, tra il verde e l’azzurro, la sua bocca molto sensuale, denti perfetti, sorriso aperto, il suo ovale incorniciato da capelli che mi parevano finti. Mi accadeva che tornando a casa cercassi, spesso, la mia compagna Cinzia, che non viveva con me, per sfogare sessualmente tutta la pulsione che l’essere stato in compagnia di Elena mi si era accesa in tutto il mio corpo. Non sapevo che in quella sera estiva, durante la cena, sarebbe accaduto un qualcosa che mi spinse decisamente a finirla col sognare a occhi aperti la figura giovanile di Elena per poi rifugiarmi come sleale e laida compensazione tra le braccia di Cinzia.
Il ponentino di Roma si era fatto vivo e presentato in forze con la sua frescura verso le 10 di sera, mentre eravamo nel pieno di una cena abbondante, stuzzicosa e bagnata da un buon rosso Cesanese. Dalla terrazza dei De Meis s’intravvedeva la sagoma del Colosseo ingiallita dalle luci che lo bagnavano. D’improvviso dalla stradina che costeggiava il lato del palazzo dove stavamo cenando, passa e s’insinua tra noi un fisarmonicista molto bravo a intonare arie dalla Carmen di Bizet. Lì per lì mai avrei pensato che quelle note avrebbero dato il via a una discussione, ma direi lite, fra i due coniugi, che in qualche modo mi avrebbe coinvolto fino all’esasperazione.
“Uuuuuuh” fa Elena “sentite? Sta eseguendo la Canzone boema, dal secondo atto della Carmen di Bizet, che preparai per la serata della cultura francoispanica qualche anno fa! Ti ricordi Pietro?”.
La domanda è il classico cerino acceso gettato sulla benzina.
“Ma che serata e serata” dice con un tono di voce forte ed alterato il marito. “Sei una cantante appena discreta, te lo vuoi mettere nella capoccia? Quando, a proposito del teatro lirico, avrai un ruolo anche piccolo in un allestimento da teatro di livello nazionale, allora avrai tutta la mia considerazione. Non so se son stato chiaro!”.
Ed Elena, quasi gridando:“Ma che ne sai tu del canto lirico, e di Bizet in particolare, che ne sai!?”, e s’affaccia sulla strada gridando in basso verso il musicista:” Signoreee, signoreee le dispiace ripetere il pezzo di Bizet? La prego, l’ascolteremo molto, molto volentieri, lei è davvero molto bravo!”. E si risentono le note dell’opera, immediatamente, ed Elena che fa, quasi sottovoce: “La partitura di Bizet, e questo tu Pietro non lo sai perché in materia sei un ignorante; dicevo, la partitura ha un passaggio sublime, un brano in Mi minore, tempo di valzer, il 3\4, che dopo quattro battute compie continue modulazioni attraverso un tema riesposto più volte ma in differenti tonalità. Penso davvero che la Carmen è il primo vero dramma musicale realista, ambientato nella vita quotidiana degli umili!”. Pietro mi fa:” Che ne pensi tu? Non ti pare che Elena dica delle stronzate musicali?”.
Ed io: “Ti prego Pietro, non mettermi in difficoltà, in imbarazzo; ho qualche reminiscenza di quest’opera, e in particolare di quando andai per un paio d’anni a lezione di pianoforte; mi ricordo solo che saltavo le cosiddette alterazioni di precauzione, cosa che non è poi così grave, dipende se volgiamo l’interpretazione sul piano emotivo, e anche su quello puramente estetico. Comunque a parer mio l’opera è straordinaria, perché non è la condizione di zingara, né quella di operaia umile, a determinare il destino della protagonista, né è l'autorità costituita a limitarla, ma è il sentimento d'amore, che non ha limitazioni di censo, di etnia, di classe! Non vi pare?”.
“D'accordissimo” aggiunge Elena, “pensiamo all'apertura del secondo atto, quando le zingare cantano e ballano la canzone boema, in un inebriante clima di baldoria, di festa e di vino: è la vitalità che esplode e che se ne frega di tutto!”.
Irrompendo come un uragano Pietro: ”Ed io me ne frego di voi due e di quel musicista di strada disperato che rompe le scatole alla gente nell’ora di cena! Chiaro? Mi avete rotto con la vostra ciance da esperti musicali quali pretendete di essere, soprattutto tu Elena!”.
“Sei un gran maleducato” grida Elena “ma chi ti credi di essere? Sei un mezzo fallito, ricordatelo! Appari mai tu in televisione? Ti intervistano sui giornali? Sui social ci sei? Su Instagram ti seguono forse diecimila followers? Rispondi, capitan Fracassa dei miei stivali! Eppoi porta un po’ di rispetto per il nostro comune amico, no!?”.
“Cara la mia Callas, me ne frego se appaio o no, io ho tirato su una famiglia, e il mio spirito artistico me lo son comunque coltivato, nonostante tutto, e fregandomene della opinione comune, chiaro? E al nostro ospite certamente chiedo scusa.”.
Ed io: “Ma no, non preoccupatevi, a me dispiace solo per voi! Ve lo assicuro.”.
Si ode di nuovo la fisarmonica dal piano stradale, e Pietro s’affaccia quasi volando sul parapetto e grida: “Bastaaaaaaaaaaa, hai rotto le palle, te ne voi anna’?”. Al che una voce vicina di un condomino interviene: “ E lascialo sta’, ma che fastidio te da’, eh? A vecchio rincoionito!”. E Pietro: “A De Sanctis, sei tu un rincoionito, non c’è un’assemblea condominiale in cui ne dicessi una giusta! A scemoooo!”. Elena pure si sporge e urla: “Come si permette signor De Sanctis, lei è un gran maleducato, e si ricordi che chi non sa godere della musica ha un’anima arida, oltre ad essere un ignorante, capitooo? E buonanotte”. Altra voce anonima grida: “A Strehler della Balduina, ma te voi sta’ zitto, eh? Sempre il solito “iosotutto”, il solito cagacazzi, e bastaaa…”.
Al che pensai che era stato raggiunto il limite, e mi congedai, molto freddamente, Pietro quasi non salutò ed Elena era pallida e con un’espressione tristemente sconsolata. Lungo le scale, scendendo a piedi, in un impeto di rabbia, mi convinsi che avrei rotto del tutto quella specie di amicizia; arrivato sulla strada alzai lo sguardo in alto verso il terrazzo dei De Meis, e pensai a quanto stupido e assurdo, in una coppia coniugale, o anche senza alcun vincolo se non quello sentimentale, è invidiare le capacità dell’uno o dell’altra, non riconoscere i meriti dell’uno o dell’altra, non capire, in fondo, il vero daimòn che ciascuno di noi coltiva in sé.
Storie di una strana famiglia di artisti 2
- Scritto da Giorgio Taffon