Uno spettacolo che innanzitutto ci insegna come la trascrizione artistica od estetica, e quella drammaturgica in particolare, sia lo strumento, il reagente più efficace per, e non è un paradosso retorico, estrarre il reale dalla realtà, soprattutto quando quest'ultima, come accade nell'oggi è deformata da paradigmi economici che ne coartano la sincerità trasformandola in una maschera utile per gli equilibri della società (e del potere), proprio come un “utile idiota”. Così il dramma e la messa in scena, che non si nascondono pertanto nelle finzioni ma le mettono in evidenza, diventano una sorta di apparato visivo, a volte un microcoscopio a volte un telescopio puntato nelle profondità dell'universo, che svela, nel senso suo proprio di sollevarle, le apparenze per mostrarci il solido spessore dei sentimenti.
Metateatro nel più profondo riferimento pirandelliano, utile soprattutto per andare a rintracciare quella irriducibile profondità che ci consente non solo di vivere la nostra intimità, ma anche di cominciare a
immaginare e, immaginandola, a costruire la vita comune, l'esteriorità di una socialità più giusta.
In questa struggente drammaturgia Milo Rau, ancora giovane ma già protagonista riconosciuto della scena internazionale, si confronta con il confine ultimo della vita, il confine che della vita garantisce la tenuta e il significato ultimo, si mostra e ci mostra alla morte che, appunto, una società della finta eternità di valori ridotti a merce ha voluto dimenticare e far dimenticare.
Ma soprattutto sceglie di affrontare quella stessa morte da un un punto di vista essenziale e irriducibile, quello della scelta, una scelta che oggi si declina nel diritto, rivendicato da molti e da altrettanti negletto, dell'eutanasia.
Lo fa con gli strumenti dell'arte teatrale, mettendo in scena storie che indicano e suggeriscono, che accompagnano senza segnare al posto nostro una strada. E per quelle storie crea un ambiente che sembra una proiezione dell'infanzia, un recupero di memorie perdute che hanno la dimensione fattuale di una casa dei giochi, una finzione che ci introduce alla realtà più profonda.
Mentre i quattro personaggi raccontano dunque, lo schermo che li sovrasta accoglie le immagini che documentano l'eutanasia (reale) di Johanna B., senza volercene spiegare le ragioni perché di fronte alla morte ciascuno è solo, ed è solo sé stesso.
Si crea così una interdipendenza narrativa e significativa tra piani diversi di una stessa realtà, tra l'accadimento e il suo racconto, tra l'evento e la sua rappresentazione che dilata man mano lo spazio e il tempo, in un annularsi finale e in un reciproco ritrovarsi, di cui il “Buco Nero” della fisica quantistica è potente metafora.
In questo secondo dittico della “Trilogia della vita privata” è come se l'universale, anzi l'universo tutto, precipitasse e si sciogliesse nell'intimità di una vita qualunque, che non è mai qualunque in quanto è la vita mia, è la vita tua, è la vita di ciascuno.
Non è però un chiudersi, bensì, come nella cifra e anche nelle ascendenze (innumerevoli e variegate) del drammaturgo, è un riuscire ad allargare il nostro sguardo ad una collettività incattivita ed estranea, forti di quella consapevolezza che nasce dall'aver fatto i conti con noi stessi, a partire da una scelta che, condivisa o non condivisa, ci riguarda sempre e ci indica strade e sentieri per attraversare quel confine che comunque ci aspetta.
Esserci e mondo, esistenze e collettività si intrecciano con una rara spontaneità, come nel ballo finale che circonda i nostri pensieri e dà loro conforto.
È come se nell'indagine (e dunque nella consapevolezza) della sofferenza esistenziale e sociale Milo Rau individuasse le radici di una possibile comune felicità.
Indubbiamente è un testo che ha l'ulteriore qualità di essere controverso costringendo anche chi lo rifiuta a confrontarsi con esso. Un sasso lanciato in uno stagno paludoso come il dibattito politico (vedasi in proposito lo sconfortante dibattito sulla legge per il fine vita o il rifiuto della Corte Costituzionale al referendum promosso sull'argomento) di questa nostra Italia degli anni 20 del ventunesimo secolo.
Un inizio di stagione veramente interessante ed encomiabile per il Teatro Nazionale di Genova. Al teatro Gustavo Modena, purtroppo per soli tre giorni, preceduto dalla ripresa del film dello stesso Milo Rau “The New Gospel”, girato a Matera nel 2019, alla Sala Mercato (solo il giorno 12 ottobre). Un grande successo.
Grief & Beauty drammaturgia Carmen Hornbostel. Regia Milo Rau. Interpreti Arne De Tremerie, Anne Deylgat, Princess Isatu Hassan Bangura, Gustaaf Smans, Johanna B. (in video). Scene e costumi Barbara Vandendriessche. Composizione musicale Elia Rediger. Musiche dal vivo Clémence Clarysse. Fotografia e video Moritz von Dungern. Luci Dennis Diels. Produzione NTGent, Tandem Scène National Arras-Douai, Künstlerhaus Mousonturm Frankfurt, Teatro Nazionale di Genova, Romaeuropa Festival.