Scandaloso e “osceno”, era questa la cifra critica “benpensante” che in genere accoglieva il teatro, e in misura minore anche il cinema, di Rainer Werner Fassbinder, il grande drammaturgo tedesco prematuramente scomparso giusto quarant'anni fa, a soli 37 anni. In realtà io ho sempre creduto che tale cifra critica abbia un suo senso, e dunque una sua verità, solo se iscritta consapevolmente all'interno del concetto del tragico, nel significato proprio di attinente alla tragedia come forma espressiva e come estetica significativa, che il nostro ha sempre praticato nella sua drammaturgia (e anche, per quanto evidente, nella sua esistenza). Tutto ciò ricade profondamente e pesantemente in questo “I rifiuti, la città e la morte”, il suo ultimo testo per il teatro e, anche per questo, il suo più maturo nel quale la sintassi melò, che è la caratteristica più evidente della sua complessa scrittura, si fa simbolizzante e astratta, o meglio tendenzialmente metafisica, assorbendo ed insieme enfatizzando l'osceno, come esibizione del nascosto ovvero del non dicibile, e lo scandalo, come inciampo nel nostro comune (e banale) sentire socializzato fino alla schizofrenia. “Osceno”, che nella sua più immediata
accezione contiene innanzitutto i moduli della “rappresentabilità” del turpe o dell'immondo, cioè come meccanissmo rivelatore e scandaloso in quanto rappresentazione di ciò che si vuole (socialmente) tenere celato, ed in questo esatto opposto del “pornografico”
È, inoltre, una drammaturgia che in fondo appare una sorta di rilettura melodrammatica e trasfigurata della brechtiana “Opera da tre soldi”, poiché punta il suo sguardo, tarate le ovvie differenze storiche e generazionali, nello stesso spazio degenerato di una comunità in cui ciò che è tenuto nascosto diventa liquido purulento che tutto invade e infetta.
La narrazione è semplice e ci parla di denaro, potere e amori mai possibili o corrisposti, nelle cui laceranti frizioni si insinua la tragica consapevolezza di un meccanismo sociale che tenta di annullarci come singolarità alla ricerca di condivisione, e se non riesce a farlo ci sopprime e nasconde.
Al centro la tragica, e in questo angelica come una vestale, figura della prostituta Roma B., metafora dell'autentica sincerità dei sentimenti che non trova spazio e che non può trovare accoglienza.
Attorno a lei, una costellazione di personaggi (dal padre ex nazista e travestito all'Ebreo Ricco) compone un firmamento sociale decaduto, i rifiuti insomma di una città (società) incapace di risorgere dalle sue tante ceneri, e in cui la morte sembra l'unico segno percepibile di una qualche divinità superstite.
Ed è proprio una paradossale e perduta religiosità, insieme alla ingenuità sacrificale della protagonista, che consente alla drammaturgia e, soprattutto, al suo transito scenico di rintracciare i segni, ideogrammi ormai quasi incomprensibili, di una umanità forse ancora riconoscibile, il baluginio di una speranza in cui resuscitare l'amore di sé e degli altri.
Alcune considerazioni, infine, vanno brevemente fatte circa l'accusa di antisemitismo che la presenza del personaggio “Ricco Ebreo” trascinò sulla pièce e sul suo autore. In realtà questo personaggio è dal drammaturgo inventato e usato come simbolo dell'ipocrisia della borghesia tedesca che, incapace di fare i conti con il suo passato, continua ad alimentare le proprie ossessioni, ribaltate però in tabù.
Così al riguardo rispose lo stesso Fassbinder: <<venendo al dramma, è vero che tra i personaggi c'è un ebreo [che] non fa che eseguire i piani messi a punto da altri, che affidano a lui l'esecuzione perché, protetto da un tabù, è inattaccabile>>.
La spigolosità e la conseguente profondità del testo, nella traduzione di Roberto Menin, è resa con efficacia da Giovanni Ortoleva, che ne legge con lucidità sia la sintassi profonda, aggiornata con movimenti da “Cabaret”, sia la denunzia dei meccanismi capitalistici che avvelenano esistenza e convivenza, gerarchizzando con crudeltà ogni comunità.
Efficace la prossemica che segue l'andamento parossistico della scrittura e agevola nella interpretazione degli attori, tutti bravi e nella parte a partire da Werner Wass en travesti e in bilico tra comico e tragico, un misto di immedesimazione e di alienazione.
Nell'insieme dunque una messa in scena interessante, ivi iscrivendo la scenografia da notti berlinesi anni 30, le musiche che danno ulteriore profondità, le luci talora spaesanti e i bei costumi. Naturale il notevole apprezzamento del pubblico che ha a lungo applaudito.
Una produzione della fondazione Luzzati/Teatro della Tosse, alla sala Trionfo del teatro della Tosse di Genova, dal 14 al 16 ottobre.
I RIFIUTI, LA CITTA’ E LA MORTE. Di Rainer Werner Fassbinder. Traduzione Roberto Menin
Regia Giovanni Ortoleva. Scene e costumi Marta Solari. Realizzazione costumi Daniela De Blasio
Sarte Rossana Cavallo, Rocio Orihuela. Movimenti di scena Leda Kreider. Musica Pietro Guarracino. Disegno Luci Andrea Torazza. Fonica Massimo Calcagno. Costruzioni Giovanni Coppola. Assistente alla regia Gabriele Anzaldi. Assistente volontaria Federica Balletto. Con Gabriele Benedetti, Marco Cacciola/ Giovanni Drago, Andrea Delfino, Anna Manella, Camilla Semino Favro, Edoardo Sorgente, Werner Waas. Produzione Fondazione Luzzati Teatro della Tosse
Coproduzione Theaterdiscounter. In collaborazione con Barletti /Waas e ITZ Berlin. Si ringrazia Goethe Institut Genua.
Foto Andrea Avezzù