“Aspettando Godot” è una drammaturgia, nel suo essere e nel suo essere manipolata dalla scena, doppiamente paradossale (e come noto gli opposti si annullano) nel senso che viene denegata ogni dialettica per affermare una visione diadica, dentro un forse eracliteo “tutto scorre”, della realtà, una sorta di tesi e antitesi che scelgono (e il termine è consapevole) di non sciogliersi in alcuna sintesi, ovvero, decidono di affermarsi come tali, così di smascherare di quella (di ogni possibile sintesi) la menzogna. Da una parte dunque c'è Samuel Beckett che, smascherando la falsità a suo parere insita in ogni linguaggio soprattutto quando si articola in dialogo (un dialogo che non a caso fa esplodere proprio sulla scena), riaffermerebbe paradossalmente, nel nulla esistenziale così svelato, una energia ontologica inaspettata, in grado di rifondare il mondo sottraendolo alla menzogna del discorso (e forse anche della letteratura). Un “nulla che c'è” dunque e che come tale scioglie la catena esistenziale
dell'abitudine dialettica che ha reso l'uomo schiavo, secondo quel suo gelidamente icastico e inevitabilemente metaforico aforisma che recita: “l'abitudine è il ceppo che incatena il cane al suo vomito”.
Un universo degli opposti, intriso di quel suo caratteristico humor che produce risate di 'angoscia', una moneta psicologica in cui il recto fa l'imitazione del suo verso, un universo che fa dell'imperfezione la sua realtà, un universo pendolare che, andando e tornando a sé stesso come un'onda di angoscia e di tedio che sale fino in gola, salva noi e lui da una altrimenti inevitabile entropia del pensiero, del linguaggio stesso e dunque anche dell'esistenza.
Dall'altra parte, o meglio a fianco ad essa, c'è Theodoros Terzopoulos che indaga questo diadico paradosso e ne coglie quell'aspetto inaspettatamente creativo, ontologico appunto, una scoperta che si avvia e si alimenta grazie alla sua capacità di far sprofondare nell'attore il testo e di farlo poi riemergere (esteticamente) dal suo sangue e dalla sua stessa carne, che vengono così prestate metaforicamente alla narrazione per riattivarne una perduta relazionabilità (interiore all'attore e esteriore nella sua proiezione verso il pubblico).
Scriveva in proposito Aldo Tagliaferri, in prefazione ad un numero monografico de “Il Verri”:<<Estorcere alla testualità becketiana un valore argomentativo senza dissolverla è agevole a chi accolga un sapere paradossale, dualistico nelle premesse e agnostico quanto a un presunto fine ultimo extra-letterario, non meno fantasmatico dell'ormai proverbiale Godot>>.
È la messa in scena dunque che tenta di sciogliere l'assurdo paradosso del nulla, anzi che può renderlo fecondo e produttivo, è il percorso drammaturgico nella sua pienezza che ci aiuta ad individuare i confini, il limes profondo (tra interiorità ed esteriorità) in cui far approdare l'onda della nostra angoscia.
La rappresentazione del non senso per dare a quello un 'senso', come dire che l'unico modo per dare significato alla vita è il suo viverla, è il processo ed il transito a cui siamo chiamati, al di là del punto di partenza e oltre ogni possibile approdo.
Per accompagnare con più efficacia un tale processo il testo è asciugato in alcune sue reiterazioni (che spesso in Becket sembrano costituire una sorta di sovrastruttura volutamente fuorviante) così da renderlo più efficacemente manipolabile, da farne un più comodo bagaglio di necessità per il viaggio da intraprendere.
Una idea ontologica del teatro come luogo, come bergsoniano coagulo di memoria ed immaginazione, in cui l'apparato scenografico di una complessa semplicità (inevitabile il paradosso) articola il vuoto senza nasconderlo, anzi mostrandocelo quale realmente è.
Una serie di scatole, che si modificano fino a formare una sorta di croce, all'interno delle quali si muovono i personaggi che assumono la loro realtà (scenica) a seconda della direzione(senso) che mostrano per sé e relativamente allo spazio tempo della rappresentazione, concentrati come nel “Big Ben” primigenio e trasfigurati in un nicciano “eterno ritorno”.
Gli encomiabili attori, interpretando e superando quello che possiamo definire come uno spossessamento grotowskiano, rispondono in scena con una piena adesione di sé (cui l'immedesimazione conferisce straordinaria 'unità'), con una naturalezza che l'assenza di qualsiasi microfonatura (oggi io credo purtroppo abusata) sottolinea efficacemente.
Uno spettacolo interessante nella sua volontà di rileggere con sguardo nuovo e diverso un classico del novecento (dell'assurdo “secolo breve” se vogliamo) alla luce di un oggi enigmatico. Un testo usato per questo come un veicolo con cui percorrere insieme un pezzo e un tempo dell'oggi, e in cui il tedio profondo che continua ad esprimere di fronte a ciò che non sembra destinato a cambiare (nell'universo e nella vita di ciascuno che di quello è proiezione) è affrontato di petto, con il coraggio estetico di chi immagina di poterlo trasformare.
L'esito e la riuscita di un tale progetto è per ciascuno una scelta singolare che siamo invitati a fare ogni sera.
In prima assoluta, ospite di Emilia Romagna Teatro, al teatro Storchi di Modena dal 12 al 15 gennaio. Grande partecipazione e applausi intensi.
Nella serata di sabato 14 gennaio, prima della replica, è stato presentato nel foyer del teatro il libro di Andrea Porcheddu, critico e attuale dramaturg del Teatro Nazionale di Genova, “Il respiro di Dioniso. Il teatro di Theodoros Terzopoulos”. Alla presentazione, moderata da Angela Albanese, docente dell'Università di Modena e Reggio Emilia, erano presenti Terzopoulos e gli attori dello spettacolo.
Aspettando Godot di Samuel Beckett. Copyright Editions de Minuit. Traduzione Carlo Fruttero. Regia, scene, luci e costumi Theodoros Terzopoulos. Con (in o.a) Paolo Musio, Stefano Randisi, Enzo Vetrano e Giulio Germano Cervi, Rocco Ancarola. Una produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale e Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, in collaborazione con Attis Theatre Company.
Foto Johanna Weber