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“Quello che stupisce di più è che un medico che quotidianamente vede ammalarsi e anche morire molte donne, dopo lo spettacolo sia rimasto impietrito per mezz’ora, gli occhi lucidi e l’incapacità di esprimere a parole quello che aveva provato”. Parte di qui Giampiero Cicciò per inoltrarsi in un articolato discorso sul potere sovversivo della parola detta. Dalla reazione di un autorevole senologo invitato ad assistere a  I miei occhi cambieranno, monologo da lui diretto, tratto da Certo che mi arrabbio di Celeste Brancato, attrice messinese morta per un tumore al seno nel 2009, che ha affidato la sua esperienza di malattia a un diario intimo e potentissimo, rivolto a tutti o almeno a molti. “Un percorso tragicomico – dice Giampiero, che di Celeste fu amico e compagno di studi alla Bottega di Vittorio Gassman – grazie anche al suo innato senso dell’umorismo che le permetteva di trovare l’aspetto farsesco anche in situazioni infernali”. Il risultato è questo diario fiume in cui le riflessioni tragicomiche

sulla sua condizione non risparmiano certe aberrazioni del sistema ospedaliero messe in evidenza dal suo sguardo caustico e compromesso, da parole che sono pietre e come pietre pesano su chi legge, e, con ancora più forza, si scagliano su chi ascolta.  Fino a modificare la percezione di uno status quo non più tollerabile e, se il caso, lo stesso operato. Al punto che, un altro medico ancora, il primario del Policlinico di Messina, cambiò dall’interno le regole del suo reparto, allestendo una mostra d’arte permanente e favorendo tutte quelle attività che possano immettere un po’ di bellezza nella sofferenza e nella malattia.
Ora, a parte l’aspetto etico sul quale non è il caso di dire oltre, quello che qui importa è soffermarsi sulla reazione di chi ha assistito a questa performance che ha visto in scena Federica De Cola, e che ha innescato una serie di riflessioni a catena.
La domanda è: sarebbe stato lo stesso se i fatti narrati e riproposti in teatro si fossero sentiti in un dibattito televisivo? Probabilmente no, visto che di situazioni al limite della tolleranza ne vengono raccontate tutti i giorni.
“Nella quotidianità –dice Giampiero – abbiamo sviluppato una sorta di assuefazione a certe notizie, a certe situazioni limite. Ma forse ‘assuefazione’ non è la parola giusta, direi piuttosto che c’è consuetudine ad ammortizzare l’emotività, le scosse forti, che invece il teatro e il potere evocativo della parola, soprattutto della parola detta, hanno la forza di liberare”.

1 Veniamo al punto: la parola detta. Sì ma come?

Il teatro e questo spettacolo ci fanno vedere in maniera spudorata cose che noi abitualmente rimuoviamo, sia pure per difesa. Celeste invece ha costruito questo grande specchio davanti al quale è impossibile girare lo sguardo.

2 D’accordo, ma come è stata trattata la parola, qual è lo specifico rispetto a un talk show, a una conferenza o a un generico spettacolo di intrattenimento, sulla base del  tuo percorso che va da Gassman a Massimo Popolizio, passando per Giancarlo Cobelli e la compagnia Lombardi Tiezzi, fino a definire una tua cifra individuale?

Gassman mi ha insegnato che la parola più è proferita in modo prezioso, più ha potere di ammaliare lo spettatore. Giancarlo Cobelli mi ha insegnato che all’interno di una frase ci sono dei mondi che le parole possono raccontare quindi una stessa frase può raccontare molteplici mondi e ogni parola è un appuntamento preciso. Se ci sono dieci parole, ci sono dieci appuntamenti. Non uno di meno. Però non devono mai essere mondi slegati. La bellezza della lezione di Cobelli è quella di creare un arco che scocca continuamente frecce diverse, tutte con la stessa identica importanza, persino le congiunzioni.

3 Come si arriva a capire e rendere la parola poetica rispetto alla prosa e qual è stato il tuo incontro con i poeti?

Con la prosa, a livello di metrica, puoi giocare di più e scomporre una frase in maniera anche del tutto personale. Con la poesia è diverso.  Da Gassman ho imparato a giocare con gli Scherzi di Jean Tardieu e, sempre con lui, ho affrontato la poesia di Dante e Pablo Neruda, scelti da me ma sotto la sua guida.
Dopodiché feci con lui lo spettacolo da La canzone dei Felici Pochi e degli Infelici Molti di Elsa Morante e sono stato tra i più fortunati della compagnia perché io avevo un registro grottesco e lui scelse proprio quella cifra per lo spettacolo.

4 Recentemente hai partecipato al Purgatorio diretto da Federico Tiezzi, con Sandro Lombardi

Ecco, Tiezzi mi ha insegnato che ogni testo e ogni parola hanno dei rimandi culturali che vanno approfonditi. Il teatro è un messaggero di cultura e Tiezzi è proprio un messaggero di cultura. Quando analizza un testo ti illumina su autori e testi sconosciuti ai più, quindi lavorare con lui è sempre un motivo di arricchimento. A ventisette anni lavorai con la Compagnia Lombardi-Tiezzi e fu Sandro che mi sollecitò a leggere autori come Christopher Isherwood, Balzac, Saba, Proust che non avevo ancora letto e che sono diventati miei punti di riferimento importanti.

5 La lingua poetica e la metrica dantesca, lo spazio di libertà al suo interno, se c’è, considerando che Dante viene recitato in modi anche molto diversi. Penso a Gassman, Giorgio Albertazzi, Carmelo Bene.

Io sempre grazie a Sandro Lombardi ho imparato che le scansioni della metrica dantesca sono già di per sé espressive e illuminano il verso proferito e quindi la battuta.

6 Esiste una prosa poetica che prevede rime, assonanze, consonanze o che comunque affida alla parola un peso che certo minimalismo anche della drammaturgia, non ha.   

Io penso che sia la parola stessa a condurre verso una cifra stilistica piuttosto che un’altra perché ogni autore e ogni epoca riproposta oggi, ci accompagnano verso la resa migliore e se noi ci lasciamo illuminare dalle parole non possiamo che andare nella direzione giusta. Trovo riduttivo, se non proprio sbagliato, parlare di modernizzazione o attualizzazione. Credo invece che non ci sia niente di più contemporaneo  di un capolavoro anche di molti secoli fa. E quella contemporaneità te la suggeriscono proprio le parole e i temi stessi, immortali.  

7 Del 2016 è l’incontro con Massimo Popolizio che ti ha voluto per il ruolo di Er Froscio in Ragazzi di vita di Pasolini, uno spettacolo fortunatissimo in cui hai riscosso un tuo personale successo.

Popolizio è arrivato in un momento difficile della mia vita perché non c’era più Cobelli e io avevo smesso di vivere nella bambagia in cui mi sentivo protetto. Dopo Ragazzi di vita e anche alla luce dei suoi più recenti lavori posso dire che Massimo rappresenta la sintesi dei miei due maestri e insieme il superamento della sintesi stessa: è un grande attore come Gassman e un grande regista come Cobelli.

8 In che senso, superamento?

Nel senso che ha in sé l’evoluzione nella contemporaneità: quella che tanto serviva a me e che tanto serve al nostro teatro.

9 Ragazzi di vita non è un testo teatrale e la forma scelta, a partire dalla stessa riduzione, mantiene la forma indiretta tipica del romanzo, ovvero la terza persona. Una formula ampiamente sperimentata da Luca Ronconi di cui Popolizio è discepolo, ora imitata e persino abusata, ma non così consueta fino a pochi anni fa.

Con Cobelli, relativamente al romanzo, avevo fatto uno studio sui Promessi Sposi in cui mi ero divertito a interpretare da solo i dialoghi tra Don Abbondio e Perpetua ma questa formula non l’avevo mai sperimentata in modo così approfondito. In scena l’avevo soltanto vista in Ronconi e Paolo Poli. È affascinante per un attore perché si scopre che puoi diventare un personaggio a tuttotondo anche attraverso la narrazione indiretta.

10 Però insieme ad Andrea Camilleri avete messo in scena La lupa di Verga e lì la parola era anche parola dialettale, forse persino neologismo.

Neologismo, sì. Io ero la voce narrante e lui era in scena con me, seduto su una poltrona, che distillava il suo personale racconto pieno di neologismi coloratissimi ispirati alla sicilianità. Una specie di partita di ping pong tra le parole di Verga e le sue.

11 Quanto e in che modo la tua esperienza di attore confluisce nel lavoro di regista, su cui ti stai concentrando ultimamente?

Come regista mi baso su un percorso che ogni volta mi ha portato a trovare nuove strade, grazie a incontri professionali importanti e situazioni sicuramente privilegiate. Sarebbe impossibile non avere recepito e fatto miei gli insegnamenti dei maestri e registi di cui abbiamo parlato. Molto rumore per nulla, per esempio, è arrivato dopo Ragazzi di vita e dopo il Purgatorio diretto da Federico Tiezzi. Entrambi i registi sanno orchestrare bene un ensemble molto nutrito senza lasciare alcun dettaglio al caso. Parole, movimenti, musiche, luci, tutto curato in modo perfetto. Ci provo anch’io.

12 Invece Lei e lei è arrivato prima. Ne parliamo?

Eh sì e mi portò il ruolo di Er Froscio. La storia di un travestito bellissimo, messinese, ‘attivo’ negli anni ’70 e ’80 e morto di aids. Si racconta che quando morì moltissimi eterosessuali, o sedicenti tali, intasarono i reparti di malattie infettive degli ospedali di Messina per fare il test. E all’epoca non c’erano le cure di oggi.

13 Si racconta?

No no, scrivi pure che andò così.

14 Come hai lavorato sul doppio (lei e lei) dal punto di vista vocale?

Sia Stella, il mio personaggio, sia l’altra Lei interpretata da Federica De Cola non avevano un unico registro: mai. Parlando con i nostri clienti al Porto di Messina eravamo ‘melodiose’ e ‘angeliche’ poi, nella solitudine delle nostre droghe e dell’alcol, la voce e le nostre parole si rompevano e scivolavano in zone tetre così da trasmettere il disincanto e il sarcasmo degli ultimi, di chi vive da ignorato della società. In questo caso ignorato solo di giorno.  

15 C’è un lavoro a cui tieni particolarmente: quello fatto con i detenuti del carcere di Messina.

Sì e anche questo è arrivato dopo le esperienze di cui abbiamo parlato, un percorso con questi ragazzi, con emozioni talmente vivide e rigeneranti che mi hanno spinto a portare con me quel loro mondo, quel loro modo di vivere il palcoscenico, la poesia, e quell’urgenza, anche quando dirigo attori professionisti. Una parola abusata, urgenza, ma qui non posso non usarla perché quando lavori con i detenuti, che scelgono liberamente di fare o non fare teatro, ti accorgi che noi teatranti, molto spesso, lavoriamo senza quell’esigenza profonda, vitale, che è calcare un palcoscenico e vomitare la nostra anima senza sovrastrutture. Un carcerato invece vive aspettando il momento in cui in scena potrà finalmente raccontare ciò che prima era buio e silenzioso. E questa è l’urgenza che molti attori hanno perduto. I carcerati in scena sono come cavalli pazzi senza recinti ma quella materia sgangherata è sempre un pugno nello stomaco. Se gli attori borghesi avessero la stessa mancanza di filtri, se ritrovassero quella ‘disperata vitalità’ di cui parlava Pasolini, il teatro sarebbe un luogo più vivo e non quel trionfo di birignao quale spesso è.  

16 Allora ti omaggio con una citazione da Franco Quadri:  “e finalmente Giampiero Cicciò, superbo Cardinale dalla voce bianca sillabante e dalle sontuose mises, vero deus ex machina e arbitro della serata”.

Il cardinale Pandolfo di Re Giovanni con la regia di Cobelli. Quadri mi candidò al Premio Ubu. Facevo un vecchio di 90 anni e ne avevo 33. All’uscita e nei camerini il pubblico non mi riconosceva. Cobelli mi ha insegnato che la bellezza principale dell’essere attore sta nella trasformazione.

17 Incalzo con Rodolfo Di Giammarco: “...il rigoroso e straordinario Giampiero Cicciò che in tutto e per tutto alimenta i meccanismi espressivi di questa creatura arcaica… Una gemma di cultura ‘truccata’, con angoscia”. Si parlava di Giovanna d'Arco di Borgovecchio di Gianni Guardigli, una sorta di partitura anche sonora in cui interpretavi una vecchia donna siciliana. Torniamo al lavoro sulla voce e sulla parola.

Erano anni in cui una bella recensione in nazionale su un quotidiano cartaceo poteva cambiare le sorti del tuo spettacolo. Grazie a quelle parole, con Guardigli ci assicurammo con quel monologo una inaspettata tournée per l’Italia.  

18 Di Giammarco sarà ospite al Festival inDivenire, che dirigi da ormai tre edizioni, intervistato da te, Andrea Pocosgnich e Filippo Timi, in una singolare inversione di ruoli e incombenze. Cosa gli chiederai?

Ho un mare di domande e curiosità. Di certo gli chiederò il suo punto di vista sul fatto che oggi le recensioni teatrali su carta stampata sono decisamente meno lette rispetto a quelle online che magari diventano virali nel social.

19 Il Festival inDivenire è appena partito. Guardando indietro e avanti azzardi una previsione alla luce del bilancio passato?

Questo progetto importante di Alessandro Longobardi che non finirò mai di ringraziare per avermi offerto la direzione artistica, è diventato centrale nel mio lavoro. Credo che in questa quarta edizione, rispetto a quelle passate, ci sia un entusiasmo in tutti i partecipanti mai visto prima. Credo dipenda dagli anni in cui il Covid ha bloccato tutto, pure il nostro festival, la terza edizione è stata nel 2019, e finalmente si torna a condividere progetti inediti, a scambiarsi idee, a incontrarsi per creare, per mettersi alla prova. C’è un premio finale, sì, ma la possibilità di mettere in scena trenta minuti di studio di un progetto magari chiuso in un cassetto per tre anni, è offerta a tutti gli artisti (e quest’anno abbiamo selezionato ben sedici compagnie). Ecco, credo che questa possibilità sia già di per sé un’occasione che sa di rinascita.