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Performance interessante, dalla sintassi più figurativa che propriamente drammaturgica, quella presentata giovedì 21 aprile nel nuovo, e purtroppo senza repliche, appuntamento del festival “Testimonianze ricerca azioni” del Teatro Akropolis di Genova. Creazione scenica liberamente ispirata al racconto di Franz Kafka, come la definiscono gli stessi autori vede esordire a Genova il gruppo “Città di Ebla”, innovativo nel linguaggio e per questo di grande interesse nella scena contemporanea italiana ed europea. Ideato e diretto da Claudio Angelini, autore anche delle luci, ha come protagonista un bravissimo Alessandro Bedosti, autore dei movimenti corporei, che è un Gregor introverso e auto-riflessivo che man mano si rinchiude in una corazza fatta di solo movimento, ma più solida di qualsiasi guscio di coleottero. Collaborano per suono, allestimenti scenografici e tecnici, e realizzazione, Elicheinfunzione, Luca Giovagnoli, Elisa Gandini e Plastikart, nonché alla regia Valentina Bravetti. Nel contesto di una costruzione scenica che, nell'apparente e quasi ossessivo realismo (è una stanza da bagno perfettamente funzionante) dei suoi componenti, mostra chiari rimandi strutturali ad una video-installazione, quando usa oggetti, luci e suoni amalgamandoli e riportandoli così ad un comune piano espressivo, Città di Ebla rilegge il racconto kafkiano e ne distilla il movimento intrinseco, traslando nel segno corporeo la simbologia narrativa e in questo forse perdendo un po' di quell'ironia che profondamente pervade la sintassi letteraria. In quel luogo, sorta di nido o bozzolo di una trasformazione, inattesa forse ma profondamente cercata e provocata, le voci del mondo sono escluse ed il loro rumore si trasforma in musica dalla sonorità evocativa e profondamente creativa. È in effetti nella traccia della percezione, ancora profondamente contemporanea, kafkiana la rappresentazione di un mondo che si riconosce e ci riconosce esclusivamente in stereotipi, ben identificabili nelle voci tra il metallico, lo stentoreo ed il falsamente confidenziale incise nella segreteria telefonica ad inizio spettacolo, in maschere comportamentali, dunque, che sfuggono e rifuggono la singolarità. Per questo mondo rivendicare la propria soggettività, quando coincide con la propria verità spesso non conforme od omologata, vuol dire traformarsi e trasformarci in insetti mostruosi, vuol dire essere perseguitati e processati, senza colpa se non quella di riconoscere in noi la diversità degli altri, fino all'annientamento. Ma pare l'unico modo per sottrarsi ad una schiavitù e dunque il protagonista costruisce, nella propria separazione dal mondo, una diversità anchilosata e sofferente, e dispiega una propria mostruosità rivendicata con forza e convinzione fino all'epilogo tragico e ineluttabile. È una trama, anzi più propriamente una rete interpretativa variegata e profonda quella che la performance dispiega, in cui non può non rintracciarsi anche l'affermazione fino ai limiti dell'osceno di una identità gridata oltre il bello, quando il bello è solo una maschera estranea e oppressiva, una affermazione 'oltre' in cui reminiscenze nicciane si confondono e amalgamano con sintassi narrative del miglior Fassbinder. Se sia una fuga possibile, quella dai limiti di una società massificata e stritolante, è una domanda inevasa che attraversa tutta la riflessione del novecento e su cui si affaccia, con convinzione, anche questa narrazione di gesti  e corpo. L'angoscia e lo sconcerto che pure attraversava il pubblico, e che conferma l'attrattiva che il teatro ha sentito verso Kafka, paradossalmente autore che non ha mai scritto per il teatro ma tra i più trascritti in scena, si è riversata in un caldo applauso.