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Seguo da tempo, anche attraverso gli spettacoli di Kronoteatro, Fiammetta Carena e ne apprezzo sinceramente le scritture teatrali. Credo possa essere definita una drammaturga di frontiera, nel senso che questo termine (“la Frontiera”) ha assunto nell'immaginario moderno e non solo Nord Americano. Una drammaturga cioè che si è posta con consapevolezza sul confine dell'ignoto, lo sguardo rivolto a quelle “terrae incognitae” che stanno oggi di fronte a tutti noi. La forza profonda di questa sua drammaturgia risiede proprio nella manipolazione degli schemi, di cui si riconosce la capacità di rassicurare e insieme di allontanare e imprigionare. Schemi sociali, culturali, esistenziali sempre più irrigiditi in un universo al contrario, e paradossalmente, sempre più fluido. Una contraddizione che produce quel caratteristico orrore della normalità che percepiamo spesso in quelle molte scritture che l'avvicinano, ma con singolare originalità, al mondo di un certo teatro europeo, nordico e soprattutto germanico di

fine secolo. Ha accettato di rispondere ad alcune mie domande e così nasce questa conversazione .

MD Fiammetta tu affronti prima il cinema come attrice per poi dedicarti in prevalenza alla scrittura teatrale. Quali sono, secondo te, le diversità che contraddistinguono i due mondi e i due ruoli creativi e quali le eventuali sinergie, le reciproche utili influenze?

FC Il cinema, non solo come attrice ma anche -e forse soprattutto- come spettatrice mi ha insegnato il ritmo, la densità che una singola immagine, un accompagnamento musicale, un silenzio, uno sguardo possono avere. Tutto ciò in teatro è solo parzialmente riproducibile ma credo sia importante contaminare i due mondi e non rimanere troppo prigionieri del realismo, né nell’uno né nell’altro. Da ragazza uno dei miei registi più amati era Buñuel ma, onestamente, non mi è mai capitato di recitare in un film nemmeno lontanamente a quell’altezza. Cerco a modo mio di ricreare quella densità solo apparentemente leggera, quel passaggio tra alto e basso, tra superficie e profondità, tra apparenza e sostanza con uno sguardo attento all’abisso che, ci piaccia o meno, è lì, è qui.

MD Ho letto che ti sei diplomata allo Studio Fersen, compiendo dunque un percorso assai singolare e innovativo di ricerca, sia interiore penso, che più latamente estetica. È stato uno snodo essenziale per mobilitare ed organizzare la tua artisticità?

FC Lo Studio Fersen mi ha fatto capire il valore della, o forse è più giusto dire ‘delle’ verità. La tua, quella del personaggio, quella dell’umanità che risuona in te e nel personaggio. E mi ha fatto anche capire quanto sia importante una forma di rigore nella recitazione e poi nella scrittura. Non puoi costruire artificiosamente, letterariamente, retoricamente: le battute che reciti e quelle che scrivi devono risuonare, penetrare, comporre un disegno o almeno una suggestione. Considera che su di me hanno avuto grande influenza anche tre cose: gli studi di antropologia culturale (prima di quelli di recitazione), una lunga frequentazione con la psicanalisi e la passione onnivora per la lettura, che tutt’ora mi accompagna. E anche nella lettura posso tranquillamente passare dalla fantascienza a Thomas Mann, da Steven King a Stefan Zweig, da un romanzo indiano, cinese, a un saggio sulle autarchie a un bel giallo, e tutto con grande piacere. Mi piacerebbe che gli schemi saltassero, d’altra parte mi rendo conto che gli schemi sono rassicuranti.

MD Quello che sappiamo di te lo sappiamo soprattutto attraverso le tue intense scritture sceniche. Sono queste un modo per nascondersi o per rivelarsi? O meglio per rivelare ciò che i tuoi occhi vedono del mondo e dell'umanità?

FC Mi sento una testimone quasi costretta (da me stessa) a vedere, a indagare, ad approfondire e, soprattutto, a chiamare -o almeno a tentare di chiamare- le cose con il loro nome. Non credo di parlare di me stessa nei miei testi. Poi certo, in una qualche misura ci finisco dentro. Mi sento incalzata da quello che succede intorno a me, da quello che succede nel mondo, negli esseri umani, nelle loro pulsioni. Sento che mi, che ci riguarda moltissimo. Ho un’istintiva ritrosia a rivelare me stessa ma sento una vera urgenza a rivelare ciò che vedo. A volte vorrei chiudere gli occhi ma non ci riesco.

MD Ho scritto di recente che la tua scrittura ricorda per durezza e spigolosità quella di grandi drammaturghi di area tedesca e austriaca, Bernhard e Jelinek ad esempio, ma anche che sempre si mantiene lucida nella sua organizzata e consapevole semplicità, quasi cercasse un maggior distacco, anche critico, rispetto al magma tumultuante di questa modernità confusa che narrativamente erompe nelle tue drammaturgie. Sei d'accordo?

FC Assolutamente sì. Il problema è che il distacco un po’ entomologico e la necessità di semplificare, di stilizzare la complessità non esimono dal dolore. Soffro per gli ucraini, per gli amici che perdono il lavoro, per i migranti che annegano, per le ragazze e i ragazzi iraniani, per la perversa attrazione verso l’autoritarismo, per lo smarrimento che tutti noi proviamo. Soffro ma guardo, leggo, ascolto, approfondisco. Leggo dei commenti atroci su Facebook, banalmente sotto Repubblica, il Corriere, scienziati, politologi, chiunque. Li leggo e sto male, ma li leggo lo stesso perché devo sapere, devo capire. Cosa? Non lo so.

MD Negli ultimi anni della tua carriera di drammaturga hai sviluppato una intensa collaborazione, quasi esclusiva direi, con la compagnia ingauna di Kronoteatro e con il suo direttore e regista Maurizio Sguotti. Come è nata e su quali intese artistiche condivise, si è sviluppata questa collaborazione?

FC Io e Maurizio abbiamo una profonda amicizia da molti anni, ben prima che nascesse Kronoteatro. Condivido con lui idee, gusti, inclinazioni. Siamo affini. Mi unisce a Kronoteatro l’assenza di retorica, il piacere di elementi surreali, astratti, la possibilità di muoversi attraverso registri diversi, a me molto cara. C’è sintonia e condivisione. Diciamo che è stato un incontro fondamentale per me e, spero, per loro. D’altra parte, va anche detto, sono molto pigra, totalmente refrattaria alle pubbliche relazione e con una tendenza al ritiro che a volte rasenta l’autoreclusione volontaria.

MD E ora, per chiudere, ci puoi dare una anticipazione dei tuoi progetti e anche, se vuoi, delle tue osservazioni e aspettative per il teatro in generale e in particolare per il tuo teatro del prossimo futuro?

FC Ho in ballo due progetti a cui tengo molto. Uno è un monologo, ‘Ulisse, Macerata’, già messo in scena ad Ancona da un bravissimo regista-attore marchigiano, Luigi Moretti. È un monologo greve, truce, (a proposito di commenti su Facebook) molto, molto liberamente ispirato all’Odissea, che credo rispecchi delle correnti impetuose e un po’ disperate che si muovono nel sottosuolo - ma anche sul suolo- del nostro mondo. L’altro è un testo che ho finito da poco, ‘Gran Bazar’ che gioca con un’ipotesi di futuro piuttosto raccapricciante, tra ironia e orrore. È un progetto che coinvolge Kronoteatro, mi sembra molto giusto per le loro corde. Per quanto riguarda il teatro in generale ho difficoltà a rispondere. A volte temo che avvolti come siamo nel superfluo e nel vacuo, negli schemi (rassicuranti) e nella frustrazione (per niente rassicurante) abbiamo seri problemi a creare, a innovare, a scavare. Galleggiamo in superficie laddove altri lottano per l’essenziale. Forse sono troppo pessimista.