Al di là delle tante definizioni che l'hanno caratterizzato, positivamente e talora negativamente, io credo che il teatro di Flavia Mastrella e Antonio Rezza sia non soltanto un “teatro che guarda” quanto soprattutto un “teatro che vede”. Sorta di fool senza alcun Re, dinoccolato burattino, Pinocchio che cresce senza mai diventare bambino preservando la parte migliore e più sincera di sé, cioè la sua profetica oppositività, la sua tagliente considerazione del mondo, spesso urticante al punto di ustionare, religiosamente senza alcun Dio, Antonio Rezza esprime in scena una incontenibile energia ed un senso del teatro purtroppo piuttosto raro. Paradossalmente, infatti, questo suo mondo surreale, anzi metafisico direi nei suoi orizzonti, descrive più di ogni altro 'la realtà della realtà', quasi ripristinandone i tratti profondi, quelli originari ora nascosti a partire da un edipo che sembra non volersi risolvere, ormai seppelliti dalle distorsioni dei luoghi comuni e delle mascherate convenzioni sociali. Tenta di essere
l'uomo senza maschera in un mondo di maschere, che tratta la parola che dice in scena prendendola, in senso estetico, sul serio e così svelandone la spesso abusata sincerità che ne ribalta la logica apparente e usuale, per aprirsi al fiume profondo del sentimento umano reso limaccioso da incrostazioni e ipocrisie.
Rezza e Mastrella usano dunque la forza eversiva del transito scenico non per abbattere ma per far risorgere dai falò delle coscienze così diffusi oggi, non per distruggere ma per ripristinare, graffiando forse le nostre identità addormentate per risanarle da ferite tanto antiche da essere quasi dimenticate. Un estetico pharmakon mitridatizzante per finalmente digerire gli inquietanti veleni dell'oggi.
Hybris nell'antica tragedia è la titanica espressione della ribellione degli uomini ai loro Dei freddi e violenti, nella moderna sensibilità di Rezza e Mastrella diventa quasi un nostalgico tentativo di evocare un Dio cui non si crede e che anche si bestemmia affinchè la ribellione dell'uomo, alla sua natura e alla sua finitezza, alla sua disperata condizione esistenziale, riacquisti un senso che ha perduto.
Tutto questo restando in Commedia, anzi facendo della commedia il luogo in cui condividere la Tragedia, ovvero le tragedie esistenziali e così mostrare, illuminato da una risata piena e quasi dionisiaca, quello che siamo o meglio che possiamo diventare.
Uno spettacolo d'arte, una farsa che spiega e accompagna, in cui la porta che si apre e chiude, mentre viene trasportata qua e là per il palcoscenico, si fa metafora dei mutamenti e delle relazioni tra esseri umani che garantiscono l'unica possibile stabilità per le nostre vite.
Una porta che diventa la forma espressionisticamente concreta del confine che ci divide e limita, utilizzata per liberare drammaturgicamente quel non detto, quel meta-pensiero, quasi sempre scotomizzato dentro la maschera, che accompagna il contatto e la relazione con l'altro, al di sotto della norma che socialmente ne regola il determinarsi.
La drammaturgia, dunque, si dice e ci fa ascoltare, anche nostro malgrado, quello che non diciamo mai perchè non lo possiamo dire, ma che comunque compone ed influenza il senso profondo della nostra irriducibile umanità, e non solo nei rapporti soggettivi ed interpersonali, ma anche in quelli collettivi e storici, quale ad esempio il complesso rapporto con le odierne migrazioni, fatte non di flussi ma di persone.
È uno spettacolo che non insegna, anzi rifiuta l'idea stessa di insegnare, ma che in fondo educa. Si ride e si pensa anche un po' di fronte a una scena inusualmente popolata e movimentata con protagonisti che fanno eco e specchio ad un monologo (quello di Antonio Rezza) che è un flusso interiore che si fa esteriore e si trasfigura nella stessa sua mimica e mimetica espressività.
Ma è anche uno spettacolo in cui la violenza, che da sempre esiste, dell'imposizione, singolare e collettiva, non è rimossa ma anzi è aristotelicamente mimata per cercare di provocarne la finale catarsi scenica. Anche la mimesi dello stupro, in scena e in platea, che porta con sé l'immagine di una comunità che non risolve sé stessa, in cui la prevaricazione si fa norma generale non sempre esplicitata ma spesso praticata, in famiglia e nel lavoro, è nella sua dimensione teatrale sciolta nello sberleffo, quello molieriano, quello vero e sincero delle maschere dell'antica Commedia dell'Arte, che mostra il suo essere atto scenico cui anche lo spettatore è insieme sottoposto e protagonista.
Non il banale scherzo per richiamare la risata, Rezza non ne ha bisogno, ma l'imitazione di un realtà di cui, attraverso il teatro e l'attore, acquisiamo consapevolezza anche nel disagio che talora provoca e suscita. Un gesto all'apparenza violento, come quello sulla madre più volte ripetuto, ma esercitato con la mitezza ingenua che riconosciamo in Antonio Rezza e che alla fine lo svela.
Uno spettacolo tra l'altro che rappresenta una interessante evoluzione nella sintassi scenica di questo duo drammaturgico, non solo per il maggior numero di attori utilizzato rispetto a quanto fatto in passato ma soprattutto per l'abbandono della caratteristica bidimensionalità, tipica del teatro di figura (e di quello di narrazione), per una innovativa tridimensionalità che nell'incrocio dei movimenti recitativi e performativi, attuanti una vera e propria stilizzata coreografia, va ad occupare l'intero palcoscenico.
In questo moltiplicarsi fluido di dramatis personae che costruiscono insieme a Rezza il transito teatrale, gli attori che in fondo agiscono da spalla, hanno trovato e valorizzato un loro ruolo autonomo e singolare e, grazie alla loro bravura performativa e mimica, sono stati capaci di portare ancor più alla luce del palcoscenico il senso intimo dello spettacolo.
Intensamente ritmica, è dunque una drammaturgia 'scorretta' nel più felice significato del termine, che coinvolge e riesce a dare scandalo etimologico senza illusoriamente scandalizzare e così sottraendo appigli allo scivoloso moralismo dei moderni benpensanti del politicamente corretto.
Cosa succede in scena non si sa, ma ben si capisce.
Alla sala Trionfo dei teatri di S'Agostino della Fondazione Luzzati-Teatro della Tosse di Genova (ancora una scelta importante per la città, la sua), il 17 e 18 marzo. Alla prima, sala piena e applausi ripetuti.
HYBRIS di Flavia Mastrella Antonio Rezza, con Antonio Rezza e con Ivan Bellavista, Manolo Muoio Chiara Perrini, Enzo Di Norscia Antonella Rizzo, Daniele Cavaioli e con la partecipazione straordinaria di Cristina Maccioni. (mai) scritto da Antonio Rezza, habitat Flavia Mastrella, assistente alla creazione Massimo Camilli, luci e tecnica Daria Grispino, macchinista Andrea Zanarini, organizzazione generale Marta Gagliardi, Stefania Saltarelli. Produzione RezzaMastrella, La Fabbrica dell’Attore, Teatro Vascello di Roma, Teatro di Sardegna. Coproduzione Spoleto Festival dei Due Mondi. Ufficio stampa Chiara Crupi Artinconnessione.