Ci sono episodi nella Storia, con la S maiuscola, snodi, gorghi che superano gli individui o l'individuo che, anche suo malgrado, ne è protagonista, ma che però solo attraverso quell'individuo possono trovare una giustificazione, una dimensione significativa che da esistenziale si fa appunto storica e talora fin metafisica (almeno intendendo la metafisica della politica). Il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro, con il corollario di una suo prima che lo prepara e lo rende possibile, e di un suo dopo, lungo, difficile e controverso che ancora non lo ha del tutto illuminato, è uno di quegli episodi, o snodi, o gorghi che dir si voglia, ovvero incroci, insieme causali e casuali, in cui precipita molto di più di quello che appare a prima vista. Con questo suo “Studio sulle lettere dalla prigionia e sul memoriale di Aldo Moro” Fabrizio Gifuni, che lo ha ideato, messo in drammaturgia e che lo interpreta, proprio questo vuole e cerca di fare, illuminare cioè la Storia attraverso la lente di quell'individuo, singolare ma anche in qualche modo archetipicamente simbolico, che ne è stato stritolato in forma di vittima sacrificale del potere per consentire a questo di riprodursi. Un'offerta tragica, proprio nel senso che la definizione
nasconde ed esprime, cui molti, se non tutti, dai rapitori delle Brigate Rosse agli esponenti dello Stato che non tratta e abbandona il suo apicale esponente, sembrano essersi aggrappati e che al suo sangue metaforico sembrano infine essersi abbeverati.
Lo fa nel modo teatralmente più intelligente ed efficace, ed anche il più profondamente 'sincero', cioè interpretando metaforicamente, anzi quasi letteralmente incarnando in scena le parole di Aldo Moro, quelle parole custodite dalle lettere scritte in prigionia nei giorni del rapimento, e dal memoriale che ne ha accompagnato il processo di fronte al cosiddetto “Tribunale del Popolo”, parole che sono emerse a poco a poco nell'arco di dodici anni trascorsi dalla sua uccisione, come un difficile parto podalico che aggravava, per l'oscurità del suo significato storico, il travaglio di un intero paese e del suo popolo, che doveva suo malgrado prepararsi a quel futuro che è il nostro oggi non proprio, in ogni suo lato, confortante.
In quelle parole dette in scena possiamo leggere tutto ciò, quasi fossero le profezie di una Cassandra che nessuno voleva (vuole) ascoltare, ma lo possiamo fare perchè quelle parole prendono vita, sangue e carne passando attraverso il corpo dell'attore, che quasi si contorce, piegandosi intorno alla sofferenza che in quelle parole, prima negate poi villipese, si manifesta.
Lo spettacolo è dunque molto di più di una lettura, ed è anche molto di più di un tradizionale monologo di narrazione, popolato come è, affollato quasi nella sua profonda solitudine, dei tanti personaggi che si illuminano nella loro intimità, a partire dallo stesso protagonista e dai suoi dolenti familiari.
Uno spettacolo di grande profondità che va così oltre l'intelligenza della Storia, o della politica e anche della società, per affondare nell'affettività, nel sentimento che forse è la sola forma di conoscenza che ne può illuminare la verità.
Un po' alla volta la ultra-naturalistica immedesimazione recitante di Gifuni, tra Grotowski e Stanislavskij, si fa contagio in platea, scuotendo, aiutata dall'uso intensamente figurativo delle luci e di pochi oggetti di scena, l'indifferenza che la memoria ha poi steso come un sudario sull'intero evento.
Anche la breve premessa esplicativa che il nostro fa precedere alla drammaturgia vera e propria non è solo un vademecum per chi, le generazioni più giovani, non ha vissuto quei momenti, ma quasi un segnale di attenzione, o anche di pericolo se vogliamo, posto all'inizio di una strada che va dolorosamente percorsa per essere fino in fondo, anche esteticamente e non solo intellettualmente, implementata.
Fabrizio Gifuni, che già è stato un molto credibile Aldo Moro nel bel film di Marco Bellocchio “Esterno Notte”, torna dunque ad essere lo statista democristiano, ma sulla scena la sua interpretazione si fa trasfigurazione che tocca corde inevitabilmente lontane da un set cinematografico, quelle corde che talvolta in teatro possono mettersi all'improvviso a vibrare all'unisono tra attore ed i suoi spettatori, come corde di un unico strumento in cui la storia e la vita cercano di mostrarsi e reciprocamente giustificarsi.
Uno spettacolo che è anche una esperienza, al teatro Gustavo Modena di Genova Sampierdarena, ospite del Teatro Nazionale di Genova, dal 13 al 15 aprile. Sala colma, molti applausi e qualche ovazione.
“Con il vostro irridente silenzio Studio sulle lettere dalla prigionia e sul memoriale di Aldo Moro”, ideazione, drammaturgia e interpretazione Fabrizio Gifuni, produzione Associazione culturale Cadmo.