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Assistere alla messinscena di un testo di Franco Scaldati, ritrovando come interprete l’erede del suo teatro, Melino Imparato, attraverso la suggestiva regia di Franco Maresco, proprio il Maresco del duo Ciprì & Maresco, e di Claudia Uzzo, è un momento importante che segna la storia del teatro italiano e della drammaturgia siciliana contemporanea. Il lavoro e l’attenzione che, negli ultimi anni, le studiose Valentina Valentini e Viviana Raciti hanno sviluppato, recuperando tutto il materiale di Franco Scaldati, è un regalo importante e un tassello fondamentale nella ricostruzione storica del teatro degli ultimi quarant’anni. Ricordiamo, infatti, che durante l’incontro di presentazione del Fondo Franco Scaldati, realizzato grazie alle donazioni della famiglia all’Istituto Teatro e Melodramma della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, svoltosi on line in periodo di restrizioni Covid a novembre 2020 (ne ho parlato in questo articolo), le studiose hanno descritto il lavoro di recupero, il materiale documentario contenuto all’interno del Fondo, compresi gli appunti e i manoscritti, ridefinendo il percorso drammaturgico dell’apparentemente dimenticato Franco Scaldati. La pubblicazione nel 2022 per Marsilio dei due volumi,

“Teatro 1975-1978” e “Teatro 1981-1990”, curati da Valentini e Raciti, sembra essere l’esito più importante di questo grande lavoro: note, apparati critici, saggi conclusivi e descrizione dei vari copioni e delle varianti ritrovate, rendono questi due volumi un importante scrigno in cui sono contenuti finalmente i testi di Franco Scaldati, sia in lingua siciliana che in traduzione italiana.
Possiamo sicuramente considerare ASSASSINA uno dei migliori spettacoli di questa stagione napoletana: in scena presso il Ridotto del Teatro Mercadante di Napoli dal 29 aprile al 7 maggio, si nota la presenza ridotta di spettatori durante la replica pomeridiana, situazione che ci colpisce molto e ci rattrista, ma inevitabile conseguenza dello strapotere calcistico nella città partenopea, proprio in quei giorni impegnata nella progettazione di eventuali festeggiamenti da scudetto.
È, dunque, necessario sottolineare la bellezza di questa produzione, la bravura degli attori, l’eleganza della regia visionaria, la profonda poesia del testo che colpisce gli animi degli spettatori, affinché questo spettacolo possa ancora affascinare il pubblico di ogni città.
I testi di Scaldati rivelano una particolare natura che li allontana, in parte, per contenuti e  per atmosfere, dai testi dei drammaturghi siciliani contemporanei, ma lasciano la fortissima traccia di una tendenza linguistica, viva ancora oggi nella drammaturgia siciliana, che prevede piccole battute brevi, incastrate le une con le altre attraverso rimandi continui, ripetizioni e anafore, piccoli contenitori ricchissimi che, appena pronunciati, sprigionano sensazioni particolari, stimolano emozioni profonde, suscitano ricordi.
Per l’intera durata di questo spettacolo cerchiamo l’assassina del titolo e ancora ci chiediamo se la Vecchina possa esserlo: in effetti, leggendo gli apparati posti a conclusione del volume che contiene il testo “Assassina”, la possibilità di una morte è costante nelle varianti create da Scaldati. Questo spettacolo sembra far riferimento alle versioni più recenti tra le 15 di cui si parla nelle Note alle Edizioni riportate nel volume citato. In realtà l’intero spettacolo è pervaso da un’aura mortuaria che ci fa immaginare i due protagonisti già morti e inconsapevoli di esserlo. È importante il riferimento ai nomi dei protagonisti, la Vecchina e l’Omino, diminutivi vezzeggiativi che rendono anonimi i due personaggi, collocandoli ai margini della società. Sono apparentemente due esempi di umanità di poco conto, miserabili e miseri, che vivono una routine quotidiana fatta di piccole cose, forse anche banali, ma è proprio questa loro forza atavica, agire e utilizzare gli oggetti semplici caricandoli di poesia.
Scaldati presentava già nel 1984, data di nascita di questo testo, una costante della drammaturgia siciliana contemporanea, cioè la coppia in scena che, in realtà, sembra rappresentare un’unica anima scissa. In numerosi testi firmati dai drammaturghi contemporanei, da Tino Caspanello, a Rosario Palazzolo, a Scimone/Sframeli, Vetrano/Randisi, quest’ultimi grandi interpreti anche dei testi di Franco Scaldati, le coppie che dialogano in ambienti serrati, silenziosi e immersi nell’oscurità sono frequenti. Come sono frequenti le piccole battute che si “incatenano” costantemente.  
Lo spettacolo si apre attraverso una “quarta parete” trasparente su cui sono proiettate delle nuvole e viene accompagnato, soprattutto all’inizio e in conclusione, dalle musiche curate da Salvatore Bonafede.
La collocazione temporale è crepuscolare, il tramonto, la sera, la notte accompagnano, nell’oscurità, come accade spesso nei testi di Scaldati, la vita dei suoi personaggi. La Vecchina descrive le sue piccole attività serali, a conclusione della giornata, e di certo la sua grande compagna è la solitudine, vuoto che riesce a riempire attraverso piccole presenze: da un lato la sua ombra, proiettata sulla tela trasparente che fa da quarta parete, attraverso l’effetto speciale più antico del mondo, ossia la luce che incontra il corpo della Vecchina proiettando la sua vera ombra con la quale dialoga, dall’altro la gallina chiusa nella gabbia,  il topino che vive nel buco del muro, la mosca che infastidisce di notte - gli animali umanizzati o personificati sono una costante dei testi di Scaldati - ed infine i due quadretti con le immagini dei genitori morti.
Le fasi serali comprendono la cena, il lavarsi, lo svestirsi, il salutare tutte queste piccole presenze, lo spegnere le luci. Proprio il concetto di luce, che nel testo famoso “Lucio” si ripete costantemente e sotto varie sfaccettature, emerge costantemente anche in ASSASSINA: “lustru”, lucerna, illuminare, lampa, lumino, “addumari” (accendere). Persino la mosca verrà chiamata “Lucina” dallo stesso Omino. Queste parole, pronunciate soprattutto dalla Vecchina, sembrano lanciare scie di luce nell’oscurità della casa, della notte e della sua vita, che è giunta, è evidente, all’ultima fase. Lei stessa, parlando con la sua ombra, dice le ombre degli anziani tendono a staccarsi dal corpo, a fuggire via. L’accendere e spegnere la luce, così come l’accendere i lumini dei due quadri dei genitori defunti e il gioco di ombre dietro le tende della cameretta da letto e del bagno, consentono all’oscurità della scena di essere illuminata continuamente da sprazzi di luce e di vita. La lentezza delle azioni, anche quelle legate all’illuminazione, è una delle costanti su cui si basa tutta l’azione, cadenzata, soppesata, rallentata. La stessa Vecchina parla con ogni oggetto, animale o parte del suo corpo a cui si rivolge, accentuando quella sensazione di silenzio e solitudine che pervade tutto lo spettacolo. Anche la stessa solitudine appare ovattata, ammorbidita da quel senso di tranquillità e pace che ha raggiunto la donna, sebbene lo spettatore percepisca pungenti momenti di amara compassione.
Il personaggio della Fanciulla, vestita da bianco cadavere di ragazza con tunica da Prima Comunione, si aggira per la casa, sbucando dagli angoli più bui e pronunciando frasi caratterizzate da frequenti chiasmi, che descrivono la vita, la morte, l’umanità. Proprio la Fanciulla, forse un’antenata, forse la Vecchina da giovane e quindi già morta, forse uno spirito antico della casa, riversa sul palcoscenico i contenuti più poetici e filosofici, in contrasto con le battute grottesche e popolari della Vecchina e con il linguaggio di bassa levatura dell’Omino.
La tranquillità della notte e della routine quotidiana, soprattutto all’imbrunire, viene scossa dall’entrata in scena del personaggio maschile, anche lui un uomo in miseria che vive la sua vita discorrendo con le piccole cose. I due si ritrovano nella stessa casa, increduli nel sentire che ognuno di loro abbia sempre vissuto in quel luogo, abbia sempre parlato con la gallina e il topino, abbia sempre usato lo stesso bagno e gli stessi oggetti.
Prima dell’incontro e della compresenza dei due personaggi sulla stessa scena, anche l’Omino svolge le sue lente azioni da solo, all’interno della casa. A differenza della Vecchina, però, interpretata da uno splendido ed intenso Melino Imparato, che presenta una recitazione cadenzata, dolce e rilassante, l’Omino, interpretato da Gino Carista, è un personaggio fortemente onomatopeico che, nel corso della recitazione, inserisce costantemente suoni e pernacchie. Il testo riporta lunghe battute sottoforma di vocali e sibili, che poi l’attore ha interpretato e personalizzato in maniera efficace.
I due personaggi si scontrano nel colpo di scena notturno, in un campo che non è neutrale, cioè il letto, ma neanche visibile dal pubblico: il gioco di ombre, infatti, continua grazie a tende illuminate che ci fanno intravede i personaggi all’interno di queste stanze. Le didascalie, però, non riportano nessun riferimento alle tende e alle stanze nascoste, ma gli spettatori comprendono che l’incontro inatteso tra i due avviene, grazie ai rumori e alle urla di terrore dei due. Portandosi in vista, sul proscenio, la Vecchina e l’Omino continuano ad accusarsi e a chiedersi come sia possibile, in un botta e risposta che accelera la recitazione e la natura poetica e cadenzata che colorava precedentemente il silenzio della notte. Entra in gioco il concetto del genere ibrido, della confusione tra uomo e donna, poiché l’Omino prende il giro la Vecchina e la definisce mascolina. Il dubbio sulla conoscenza che pervade entrambi i personaggi, in effetti sconosciuti, e il dubbio sull’identità sessuale sono i due elementi che caratterizzano il momento di maggior tensione. Ci si chiede, inoltre, chi ucciderà l’altro, la Vecchina con il caffè forse avvelenato o l’Omino con l’ombrello? Il titolo, in effetti, riporta l’accezione femminile “assassina”, ma in realtà le 15 varianti ritrovate e firmate da Scaldati riportano anche finali di morte, che, in questo spettacolo non emergono. Lo spettacolo, infatti, si chiude con un finale aperto, ma è evidente che lo spettatore si è lasciato conquistare dalle parole, dal racconto nel racconto, dalle ambientazioni, dai personaggi, tralasciando la questione “morte”. In effetti, la morte vive sulla scena, dalla Fanciulla, interpretata da Aurora Falcone, alle immagini dei genitori morti, alla radio che si accende da sola e fa sentire musica e voci d’altri tempi, come posseduta da spiriti.
I due personaggi accendono la luce insieme, urlano insieme, si rincorrono, e prima dell’incontro visivo parlano di fantasmi che non hanno mai visto in quella casa e che devono cacciare. Essi stessi, ai margini del mondo e della società, sono due fantasmi rintanati in una casa: la vecchina con la sua routine, dialoga con l’ombra di se stessa, l’Omino mendicante e ubriacone ha esaurito le sue energie e torna a casa per vivere in solitudine. Entrambi continuano a parlare con tutto ciò che li circonda, producendo spiragli di vita in un ambiente che ricorda una casa antica mai più riaperta dopo la morte dei proprietari. I due ammiccano, sembrano piacersi, sono forse la stessa persona o la stessa anima?
Il testo del 2011, l’ultima versione, si chiude con i due personaggi fulminati a terra, lo spettacolo di Maresco e Uzzo sembra lasciare in sospensione il pubblico. La voce della Fanciulla chiude il cerchio e interpreta anche le voci di Madre e Padre che sono indicate sul testo.
Chiudiamo questa lunga osservazione, ma non esaustiva, proprio con alcune parole della Fanciulla, interprete scenica, in effetti, della memoria e dello spirito di Scaldati: «…a sira , a luna va’ rintr’ ‘a caverna; isamu l’occhi; ‘a cavern’è ora è u munnu e a luna è
‘n’
cielu».
Rispettiamo l’ordine in cui Scaldati poneva parole e battute, così come quelle onomatopeiche che delineano delle vere e proprie vele triangolari sul testo. La traduzione, dello stesso Melino Imparato, è questa: «… la sera, la luna va dentro la caverna; alziamo gli occhi; la caverna è ora il mondo e la luna è in cielo».

TEATRO RIDOTTO DEL MERCADANTE
NAPOLI
29 APRILE- 7 MAGGIO 2023

ASSASSINA
di Franco Scaldati
adattamento e regia Franco Maresco e Claudia Uzzo
regista collaboratore Umberto Cantone
con Gino Carista, Aurora Falcone, Melino Imparato
scene e costumi Cesare Inzerillo e Nicola Sferruzza
musiche Salvatore Bonafede
video Francesco Guttuso per Lumpen Film
direttore di scena Cesare Gaudenti, Flavia Francioso
disegno luci Carmine Pierri
tecnico video Pietro Di Francesco
fonico Diego Iacuz
foto di scena Ivan Nocera
in collaborazione con Associazione Lumpen
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Biondo di Palermo