“Affabulazione” di Pier Paolo Pasolini è una scrittura drammaturgica impastata in una parola che, precipitando in scena fino a quasi ossessivamente intasarla, riempiendo così anche la mente e lo spirito di chi ascolta e, quell'immagine che in essa è
detta, guarda, porta con sé la 'non parola', il non detto e ciò che non è esprimibile se non metafisicamente; dunque è essa stessa duplice ed esprime forse più che altrove la duplicità del suo autore, il suo essere spezzato più che scisso. Lo ricorda in particolare Stefano Casi che scrive: <<con la parola, insomma, Pasolini opera una sintesi dell'aspetto visivo-narrativo del proprio discorso: l'affabulazione nasce perciò dall'incontro dei due piani della comunicazione, piani che coincidono con quelli complessi della realtà, che è fenomenologia visiva e uditiva. E in conclusione la parola, arma borghese della ragione, diventa ambiguo supporto di una narrazione “per gli occhi”>>. Una duplicità che solca l'estetica della sua concezione dell'arte e insieme l'etica della sua posizione sul e nel mondo, non riuscendo mai fino in fondo a mescolarle e sovrapporle, una duplicità che transita il sociale e lo storico ma insieme, proprio in quanto di sostanza metafisica, anche l'esistenziale, nella concretezza di un uomo che dolorosamente attraversa il tempo, il suo ma non solo, e infine è culturale, collettivamente partecipata e 'predicata', ma anche psicologica o spirituale, suggendo la sua linfa produttiva da una interiorità singolare e che non può al contrario essere mai pienamente condivisa.
In questo Pasolini si trasforma, o cerca di farlo, paradossalmente e metaforicamente pur essendo come detto inestricabilmente uomo dentro al suo tempo, un tempo di transito e cambiamento, in un 'marginale', quasi aggrappandosi ad una tale condizione metaforica, che non gli appartiene e non può veramente vivere, aggrappandosi cioè a quel relitto forse per sopravvivere alla tempesta, una tempesta dai molti nomi come le teste dell'Idra (modernità, sviluppo, boom economico, capitalismo sempre più egemone) che sta un po' alla volta annientando il mondo dei suoi 'marginali' ed emarginati.
Infatti Pasolini ama il 'suo' popolo, quel particolare popolo marxianamente composto dal sotto-proletariato di chi lavora senza industrie e che va (come disse una volta in una conversazione con Ninetto Davoli) dalle borgate romane all'intero 'terzo mondo', ma lo ama 'liricamente' perchè non gli apppartiene e lui non può appartenergli, lo ama desiderando di possederlo, quasi fisicamente, sapendo di non poterlo possedere.
Specularmente odia la Borghesia, destinataria diretta di questa drammaturgia, di cui è parte dalla nascita e per tutta la vita, proprio perchè invece alla borghesia appartiene e non può liberarsene, culturalmente ed esistenzialmente, anche volendo e soffrendo profondamente per questa impossibilità.
Dunque “Affabulazione”, una fiaba-tragica che non racconta niente ma rappresenta sulla scena un mondo, quel mondo spezzato, nella sua evidenza figurativa, porta con sé lo sguardo dell'intellettuale, che disprezza ciò che è e il contesto in cui lo è senza però vedere (o cercare) alternative praticabili, con disperazione ruvida e gridata, e lo sguardo del poeta che penetra con il bisturi della parola la carne del suo spirito per raggiungere ed estirpare il cancro che, silenziosamente, lo divora.
In questa narrazione scenica vive dunque una visione del mondo, con le sue coordinate sociali, culturali, storiche e politiche, un mondo in cui il capitalismo-patriarcato si fa feroce nella sua degenerazione-rigenerazione continua, e impone la sua egemonia, quella che oggi non riusciamo neanche più a vedere ed elaborare, eliminando avversari di classe e nemici di pensiero, fino a coinvolgere con l'arma potente dell'omologazione anche la stessa 'contestazione' del 68 in cui Pasolini legge la scelta inconsapevole dell'essere parte comunque di un sistema, di un processo che non può veramente liberare l'uomo.
Contemporaneamente e con essa mescolata precipita, però, una sorta di revisione lirica dell'Io di Pasolini, da cui emergono i tratti inconsci di un difficile rapporto con il proprio padre, un militare non va dimenticato, cui paradossalmente si contrappone senza contestarlo veramente la figura femminile, e, in essa revisione profondamente coinvolta, la difficile organizzazione di un sé che attraverso la contrapposizione intima al mondo, la sua estraneità profonda, cerca in fondo una accettazione che forse non arriverà mai.
“Affabulazione” in sostanza, proprio grazie al suo essere 'doppia', speculare e anche sovrapposta (Padre con ovvero vs Figlio), è un dramma rovesciato non solo per l'inversione dello schema Sofocleo cui si ritiene ispirata, ma anche linguisticamente intesa poiché è come sospesa tra il fiabesco dei ritmi e il tragico dei contenuti, tra l'onirico della sintassi e il proiettivo della narrazione, che appare travolgere e stravolgere lo schema freudiano che parrebbe strutturarla.
Soprattutto è un racconto scenico metaforico che decompone ogni psicologismo in un caleodoscopio di significati (padre-figlio, potere-libertà, vecchiaia-giovinezza, virilità-impotenza), tutti interni alla strutturazione che Pasolini fa dei singoli personaggi, e lo trasferisce in una dimensione metafisico-religiosa (la religiosità di chi si definiva agnostico) che il coté grottesco di un cristianesimo ormai istituzionalizzato svela, venendone infine confermata.
Questo quinto evento del progetto pasoliniano di Emilia Romagna Teatro costruito dal direttore Valter Malosti è affidato alla regia del giovane ma già affermato Marco Lorenzi, il fondatore del “Mulino di Amleto”, e alla revisione testuale di un dramaturg di grande esperienza come Laura Olivi, che per così dire asciuga il testo senza depotenziarne le coordinate espressive e narrative più intime.
La messa in scena riesce così a cogliere con profondità la natura ultra-temporale del testo pasoliniano, che affonda in un certo senso nel passato che è prima della stessa tragedia (il figlio è detto non un “enigma” ma bensì un “mistero” e per questo non penetrabile con la sola ragione) ma parla di un futuro profeticamente temuto, come una Cassandra.
Intelligente, quasi a pescare nelle profondità simboliche che ci vengono da quella ritualità antica, l'uso in scena dello stimma tragico del montone e dell'agnello quale mascheratura che svela il sacrificio (il capro espiatorio) cui siamo costretti per accedere alla consapevolezza.
Una narrazione dell'oggi dunque, ma una narrazione appunto 'binaria' che parla dell'individuo e della Società che lo ha prodotto in fondo per imprigionarlo, il cui transito scenico è capace di raccogliere l'aspetto grottesco della contrapposizione tra il piano della realtà e quello della proiezione che è nell'arte di Pier Paolo Pasolini, una contrapposizione 'parodistica' che è contraddizione dentro il giudizio che siamo chiamati a dare alla realtà, individuale e storica, mentre la viviamo, e la cui mancata risoluzione può avere, come qui ha, il suo prezzo nella 'follia' che ci espelle.
Una messa in scena valida per un testo molto complesso e stratificato, forse il più complesso tra le tragedie di Pier Paolo Pasolini, una tragedia della parola 'fàtica' ben organizzata in scena, per una recitazione di qualità da parte dei protagonisti, dentro un contesto scenografico, di costumi, disegno luci e ambiente sonoro di grande efficacia.
Nell'ambito di “Come devi immaginarmi” dedicato a Pier Paolo Pasolini nel centenario della nascita, in prima assoluta al teatro “Arena del Sole” di Bologna, dal 18 al 21 maggio. Grande partecipazione e molti apprezzamenti.
Affabulazione di Pier Paolo Pasolini, regia Marco Lorenzi, con Danilo Nigrelli, Irene Ivaldi, Roberta Lanave, Barbara Mazzi, Riccardo Niceforo, dramaturg Laura Olivi, scenografia e costumi Gregorio Zurla, disegno luci Giulia Pastore, disegno sonoro Massimiliano Bressan, assistente alla regia Yuri D’Agostino, suggeritrice Federica Gisonno. Produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale in collaborazione con A.M.A. Factory / Il Mulino di Amleto.
Foto Giuseppe Distefano