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Gli spettacoli classici di Siracusa - quest’anno Prometeo di Eschilo e Medea di Euripide - nel contesto della cinquantottesima edizione delle Rappresentazioni classiche organizzate dall’Istituto nazionale del dramma antico nel Teatro Greco, presentano una caratteristica positiva dalla quale occorre iniziare se si vuol raccontare criticamente questi allestimenti teatrali. Sono entrambi spettacoli che implicano un pensiero forte e tangibile e sono concepiti per parlare al presente. Ci sono in gioco, come sempre, testi tragici di rilievo archetipico per la nostra cultura, importanti registi, grandissimi attori, abili scenografi e light designer, raffinati compositori, musicisti, direttori di coro, maestranze di grande competenza, una struttura organizzativa e amministrativa ben rodata. È ben difficile quindi realizzare allestimenti che non siano congrui rispetto a queste importanti premesse. Ma che cosa fa realmente la differenza? Il pensiero. Il pensiero del regista che legge il testo da portare in scena e che dialoga con

esso a partire dalla consapevolezza attiva che, se pur quel testo è antico di migliaia di anni, il teatro non può che essere – sempre e comunque - contemporaneo. Questo è il nodo fondamentale di questi spettacoli, il rovello intellettuale che li rende affascinanti e vivi. Quanto è più attiva e operante questa consapevolezza, quanto più è solido e profondo il dialogo tra regista e testo, tanto più lo spettacolo saprà andare oltre una vacua monumentalità e avrà necessità e forza di verità. Sinteticamente si può dire che sono lavori massimamente filosofici e, se concedono qualcosa alla mera spettacolarità, è per agganciare il pubblico nella sua varietà e offrire delle coordinate di comprensione di quanto accade in scena.

Il “Prometeo incatenato” di Eschilo, proposto nella traduzione chiara e corposa di Roberto Vecchioni e immaginato e diretto da Leo Muscato, ribalta la linea prospettica di Eschilo e della lunghissima tradizione di letture di questo testo: la Scizia in cui si trova la rupe remota a cui è inchiodato l’eroe eschileo è un luogo lontano, isolato, inospitale, terribile ma è anche, in qualche modo, un luogo primordiale di possibile, auspicata, persino temuta ripartenza (temuta da Zeus, qui in veste tirannica). Non si sa come né quando accadrà, ma non c’è dubbio che il dono di Prometeo, il fuoco, è un dono che porterà l’uomo a un vittorioso dominio della natura. Prometeo sconta per intero la pena inflittagli da Zeus tyrannos, ma l’uomo è salvo e vittorioso. Probabilmente questa prospettiva nel prosieguo della trilogia eschilea - e della spiritualità di questo drammaturgo - avrà avuto una profonda modificazione, almeno rispetto al carattere tirannico di Zeus, ma noi abbiamo solo questo testo e da esso deve partire il dialogo creativo e la costruzione di uno spettacolo di respiro contemporaneo. Occorre notare in questo dialogo anche la presenza attiva e costruttiva del giovane grecista Francesco Morosi in veste di dramaturg.  Il titano filantropo, costruito da Muscato è inchiodato (addirittura saldato) al ferrame arrugginito, deteriorato, pericolante e pericoloso, inquinato e inquinante, di un grande camino industriale nel contesto tossico di uno stabilimento in disarmo, abitato solo da fantasmi di divinità smarrite a se stesse e al mondo. Le scene sono disegnate da Federica Parolini, i costumi (che provano a sembrare “atemporali” ma rimangono estranei a suggestioni cinematografiche) sono di Silvia Aymonino. Se pensiamo al nostro paese e ci ricordiamo che il regista è di origini pugliesi non è difficile né gratuito pensare che, in qualche modo, si sia ispirato alla terribile vicenda delle acciaierie di Taranto, ma questo non è un dato poi così importante. La crisi ambientale che stiamo attraversando è mondiale ed è stata determinata da un modello di sviluppo capitalistico e industriale che porta a una messa in discussione radicale della nostra presenza sul pianeta. L’impotenza di Prometeo nel liberarsi di quei chiodi crudeli è la nostra stessa impotenza a cambiare il nostro modello di uso delle risorse del pianeta e di sfruttamento del lavoro e il nostro stesso modo di stare al mondo. Un gesto intellettuale audace questo di Muscato, e una prospettiva di lettura interessante da cui discende la vitale inquietudine dello spettacolo e la sua necessità artistica. La tragedia cambia segno ed è come se fossimo chiamati a contemplare, impotenti e increduli, una catastrofe che si trova alle nostre spalle, che è già accaduta. Impotenti e increduli, sebbene le dinamiche di potere e di sottomissione al potere (più o meno miserabile) che continuano a realizzarsi tra quei personaggi, siano incredibilmente stabili e possiamo riconoscerne sulla nostra pelle potenza e veridicità. Ad esempio sentiamo Prometeo dire: «....è questa la malattia del potere non fidarsi mai degli amici...» o ancora, più avanti rivolto a Ermes «....non scambierei mai la mia disgrazia con la tua vita da servo»). Ecco, solo da qui in poi, dal gesto intellettuale del regista e da questo grumo di senso antichissimo e ancora tremendamente vivo, è possibile leggere lo spettacolo nella sua dimensione formale e apprezzarlo in quella che forse è la sua qualità migliore: il ritmo perfetto che il regista imprime al dispiegarsi dell’intero allestimento e che gli attori sanno interpretare adeguatamente, sebbene non tutti con la stessa efficacia. In questo contesto è necessario menzionare le sorprendenti prove di Alessandro Albertin (un Prometeo che non perde mai la tensione del personaggio, senza scivolare in atteggiamenti o toni patetici) e di Deniz Ozdogan (una Io capace di attraversare ed esprimere credibilmente il fascino ancestrale, sacro e persino bestiale del personaggio eschileo senza smettere di comunicare una piena padronanza dei suoi importanti mezzi attorali). E allo stesso modo è interessante apprezzare il disegno sonoro e musicale (firmato dal brasiliano Ernani Maletta) che dialoga attivamente con la tragedia in tutto il suo dispiegarsi. Si tratta insomma di uno spettacolo importante, costruito in modo elegante e lineare con chiarezza di intenti e una regia solida. C’è qualcosa che non convince? Sì: in generale qualunque elemento che si riveli poco meditato o automaticamente sospinto dalla tradizione concettuale e teatrale legata al testo eschileo o che, comunque sia, non si appaia ben collegato alla lettura che Muscato fornisce del testo. Può anche trattarsi di elementi formalmente attraenti e affascinanti ma restano sostanzialmente afoni e privi di senso intrinseco: ad esempio il personaggio di Oceano interpretato da Alfonzo Veneroso e, in generale, il coro delle Oceanine, pur molto ben curato da Francesca Della Monica e da Elena Polic Greco.

Sicuramente più sofisticata e complessa è l’impronta che Federico Tiezzi imprime alla sua lettura della Medea euripidea. La traduzione del testo, realizzata da Massimo Fusillo, (uno dei massimi studiosi italiani della tradizione del classico) mostra consapevolezza della complessità dello sguardo del regista. Appare evidente l’intento di legare, dal punto di vista visivo anzitutto, il dramma di Medea alle esperienze del dramma borghese moderno (Ibsen e Strindberg, sono citati esplicitamente). La scenografia, (disegnata da Marco Rossi) lineare, elegante, severa, in bianco e nero e punteggiata da busti di sapore neoclassico, racconta il cronotopo del dramma immaginato: interno alto-borghese, luce fredda, nord Europa, primi del novecento, la classicità è solo il ricordo - abbastanza sbiadito e forse malato - di un antico ordine neoclassico. Ma non bisogna lasciarsi ingannare da questa prima impressione: l’intento di Tiezzi è piuttosto quello di usare il mito di Medea, nella meravigliosa riflessione/versione euripidea, per indagare l’origine del male che ha avvelenato e avvelena ancora la cultura occidentale. Lo spazio di senso da attraversare e colmare è sempre lo stesso: come spiegare l’orrendo gesto di Medea? Come attribuire ad esso un senso che possa, se non scioglierne il mistero, almeno attenuarne l’inimmaginabile baratro di ferocia. Una ferocia che, nella sua misteriosa folle oscurità, diventa segno e premonizione di molta sanguinosa storia occidentale. Se questo è l’obiettivo, la principale ipotesi d’interpretazione su cui sviluppare lo spettacolo, quasi fosse un’inchiesta, è il cozzare violento della cultura “altra”, magica e ancestrale, barbarica, pre-razionalista e (ovviamente) premoderna in cui è restata immersa Medea e il razionalismo “identitario” della cultura greca che è in nuce quello stesso della cultura occidentale nella sua evoluzione storica. Poi, certo, ci sono anche altre linee di lettura e di esplorazione del testo euripideo: il rifiuto tracotante e razzista dell’alterità, la dialettica di potere tra maschile e femminile, la sessualità come luogo del perturbante incontrollato e incontrollabile, il rapporto tra utile e giusto e tra linguaggio e verità, la difesa e la distruzione del nucleo familiare, il rapporto dell’occidente (greco) col suo stesso passato mitico e “barbarico”. Ed ancora non va trascurata la consapevolezza di Tiezzi della complessità del concetto di contemporaneità, alla cui superfice affiorano segni e sensi che traggono operatività ed efficacia da eventi remoti, da traumi ancestrali solo apparentemente superati, da un forte sedimento di storia, cultura e memoria che, pur restando invisibile, non è inerte e non cessa di agire e condizionarci. Si spiegano così in questa “indagine” da una parte le danze e le sonorità “sciamaniche” che aprono la messinscena e ne punteggiano il prosieguo, la femminilità “sacra”, carnale, persino animale di Medea che vacilla ma non arretra nell’attuare la sua vendetta sanguinaria (una Laura Marinoni che a tratti indossa una maschera d’uccello e supera con la sua autorevole duttilità e con la sua intelligenza attorale anche alcune incongruenze registiche), si spiegano così dall’altra parte, dalla parte del razionalismo, l’utilitarismo spiccio, narciso, infantile, malato, “economicista” di Giasone (un Alessandro Averone in gran spolvero), la deformità bestiale di Creonte (Roberto Latini valorizzato da Tiezzi nella sua tipicità tonale di attore performer) che qui non è un padre/re preoccupato di difendere la figlia Glauce e la città, ma un tiranno animato da bestiali “animal spirits” che sente nell’alterità di Medea, irriducibile al suo potere, una minaccia non circoscrivibile o superabile. In questo contesto di senso vanno lette le maschere di coccodrillo che il regista assegna a Creonte e ai suoi famigli, mentre meno comprensibili appaiono le maschere da coniglietti assegnate ai bambini (forse un indizio di quella fragilità primordiale che Medea saprà istintivamente individuare e colpire nella sua vendetta). In un siffatto contesto è il coro l’elemento del testo euripideo che entra in maggior sofferenza, perché perde strutturalmente di senso: le donne di Corinto nella figurazione di Tiezzi diventano cameriere, operaie, addette a una qualche manifattura, antica o attuale, che nei loro semplici vestiti e copricapi blu sembrano interessare più per i giochi di luce e colore che possono realizzare che per il senso del loro essere in scena, ferme restando la solidità delle prove artistiche di Francesca Ciocchetti (Prima corifea) e di Simonetta Cartia (Prima coreuta). Qualcosa di simile accade anche al personaggio di Egeo, interpretato con impegno e interessante duttilità, da Lugi Tabita: un personaggio che è uno snodo fondamentale nello sviluppo del dramma ma che certo è difficile da inquadrare registicamente nelle tante motivazioni della sua fragilità, del suo peregrinare, del suo agire.
In fondo allora questa complessità di lettura si rivela un’arma a doppio taglio: se infatti costituisce la qualità maggiore di questo lavoro e ciò che lo rende interessante, è anche, al contempo, il suo maggior limite. Essa infatti finisce col supportare una gran quantità di motivi, idee, sollecitazioni, di invenzioni formali piccole e grandi che, se pur apparentemente sembrano radicarsi nell’interpretazione data al testo, in realtà restano solo dei tentativi abbastanza inefficaci ad approfondire il concept fondamentale della regia: solo per fare due esempi, la recitazione franta e antinaturalistica, molto evidente all’inizio (nelle parole della nutrice interpretata da Debora Zuin), che poi, in qualche modo si perde per strada, le maschere presenti nei personaggi di Creonte e dei bambini. Problematico e non del tutto risolto appare anche l’ambito delle sonorità, del canto e delle musiche, realizzato e curato da Francesca Della Monica, da Silvia Colasanti e da Ernani Maletta: si tratta di un insieme di grande fascino, coltissimo e parzialmente originale (oltre a quelle composte per lo spettacolo, sono usate anche musiche di Gyorgy Ligeti, di Gustav Mahaler, di Franz Schubert, di Heitor Villa-Lobos), ma sono così tante le sollecitazioni culturali, artistiche e intellettuali che implica e introduce da sembrare talvolta eccessivo, quasi giustapposto e non sempre ben integrato con l’evento teatrale.

Sintetizzando si può dire che, per entrambi questi lavori, sarebbero stati necessari dei tempi più ampi e distesi per il dispiegarsi della riflessione intellettuale e della costruzione scenica e spettacolare. Non è un caso, tra l’altro, che questi spettacoli vadano migliorando, molto e visibilmente, di replica in replica. È un problema che viene segnalato da anni e più parti, che certamente afferisce alla struttura dell’organizzazione degli spettacoli e che sta in capo anzitutto all’Istituto del dramma antico (che ne è sempre più consapevole) ma ancora di più agli enti pubblici che supportano, politicamente e dal punto di vista amministrativo e organizzativo, questa manifestazione: il Ministero della cultura, la Regione, la Sovrintendenza, il Comune. Quel che appare più interessante però, ai fini di una riflessione di ordine critico, e che di anno in anno si staglia sempre con maggiore chiarezza è il dato estetico di questa vicenda. Messi da parte definitivamente, ormai anche nel pubblico siracusano, schemi e conservatorismi neoclassicisti (comunque fossero culturalmente e politicamente connotati), la tensione intellettuale che nella committenza sovrintende alla scelta dei registi e, globalmente, alla definizione degli ensemble artistici, sembra orientarsi a una considerazione ben più chiara della differenza tra questi allestimenti e, da una parte, il teatro di prosa e, dall’altra, il teatro d’opera. Non solo i testi antichi, acquisiti con serietà e fatti oggetti di serie riflessioni di tipo filosofico, ma la stessa enormità delle dimensioni del Teatro Greco di Siracusa (un monumento archeologico fragilissimo per altro e d’inestimabile valore), implicano e inducono un’idea di spettacolo complesso e di arte “totale” che, pur ispirandosi alla classicità, non può che essere veramente nuova, contemporanea e interessante. La differenza con la prosa è abbastanza facile da intuire e praticare. La differenza con l’opera lirica, al di là del canto, è più difficile da individuare ed è determinata dal dovere di affrontare, proprio nel momento della creazione registica, una sfida enorme. La sfida della più coraggiosa ricerca intellettuale in quel campo di senso, enormemente vuoto e fecondo, che è la dialettica tra identità e alterità del mondo occidentale rispetto alla cultura e alla presenza del mondo antico greco-latino. Gli spettacoli sono in scena, a giorni alterni, fino al 2 luglio 2023. Giorno 9 giungo inizia la Pace di Aristofane con la regia di Daniele Salvo. Per le date esatte e altre informazioni si veda il sito www.indafondazione.org.

Prometeo
Di Eschilo. Regia di Leo Muscato, traduzione di Roberto Vecchioni. Drammaturgo Francesco Morosi. Scene di Federica Parolini, costumi di Silvia Aymonino, musiche di Ernani Maletta, direzione del coro di Francesca Della Monica, coreografie di Nicole Kehrberger, luci di Alessandro Verazzi. Direttore di scena, Mattia Fontana Con: Silvia Valenti (Bia), Davide Paganini (Kratos), Michele Cipriani (Efesto), Alessandro Albertin (Prometeo), Alfonso Veneroso (Oceano), Deniz Ozdogan (Io), Pasquale di Filippo (Ermes). Coro delle Oceanine: Silvia Benvenuto, Letizia Bravi, Gloria Carovana, Maria Laila Fernandez, Valeria Girelli, Elena Polic Greco, Giada Lorusso, María Pilar Pérez Aspa, Silvia Pietta (Corifee); Giulia Acquasana, Marina La Placa, Alba Sofia Vella (Coreute). Responsabile del coro, Elena Polic Greco. Con la partecipazione delle allieve dell’Accademia d’Arte del Dramma Antico: Caterina Alinari, Clara Borghesi, Vanda Bovo, Carlotta Maria Messina, Marta Parpinel, Flavia Testa, Sandre Siria Veronese, Elisa Zucchetti (Coro). Crediti fotografici: Maria Pia Ballarino, Franca Centaro, Michele Pantano,

Medea
Di Euripide, regia di Federico Tiezzi, traduzione di Massimo Fusillo. Scenografo, Marco Rossi; costumista, Giovanna Buzzi; disegno luci di Gianni Pollini. Maestro del coro, Francesca Della Monica; arrangiatore del coro e delle voci, Ernani Maletta. Musiche originali del prologo di Silvia Colasanti (eseguite dal coro di voci bianche e orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, diretti da Giuseppe Sabbatini e da Carlo Donadio). Direttore di scena, Nanni Ragusa. Con Debora Zuin (nutrice), Riccardo Livermore (pedagogo), Laura Marinoni (Medea), Roberto Latini (Creonte), Alessandro Averone (Giasone), Luigi Tabita (Egeo), Sandra Toffolatti (Nunzio), Francesca Ciocchetti (Prima corifea), Simonetta Cartia (Prima coreuta). Coro: Alessandra Gigli, Dario Guidi, Anna Charlotte Barbera, Valentina Corrao, Valentina Elia, Caterina Fontana, Francesca Gabucci, Irene Mori, Aurora Miriam Scala, Maddalena Serratore, Giulia Valentini, Claudia Zappia. Matteo Paguni e Francesco Cutale (figli di Medea). Con la partecipazione degli allievi e delle allieve dell’Accademia d’Arte del Dramma Antico. Crediti fotografici: Maria Pia Ballarino, Franca Centaro, Michele Pantano,